Rosanna Purchia pensa a un Museo dei Musei per Torino

Una vita nei teatri, ora guida la Cultura del capoluogo piemontese: «Qui c’è un vero “sistema” culturale, così coeso da aver resistito eroicamente in questi anni di crisi»

Rosanna Purchia © Edoardo Piva
Alessandro Martini |  | Torino

«Ringrazio Torino per avermi insegnato ad amarla. Possiede un sistema culturale di una ricchezza rara, di cui la città stessa sembra non aver coscienza. Ma per me che vengo da fuori è evidente l’eccezionalità di questa città, in cui sono tutti coesi, dagli enti pubblici alle fondazioni di origine bancaria fino alle istituzioni: Camera di Commercio, Unione industriale, Università, Politecnico... Qui c’è un vero “sistema”, che infatti ha retto anche in questi momenti di crisi».

Rosanna Purchia (Napoli, 1953) è piena di entusiasmo e non corrisponde per nulla a un’immagine consolidata di «esperta di conti e bilanci». E in effetti è chiamata a guidare l’Assessorato alla Cultura dal neosindaco Stefano Lo Russo (Pd) anche per le sue esperienze precedenti di «grande risanatrice»: proprio a Torino come commissario straordinario del Teatro Regio, per 13 mesi, e prima come soprintendente del San Carlo di Napoli (2009-20), allora in grave crisi finanziaria e d’identità. «Credo di aver l’istinto del kamikaze, sorride la Purchia. E in più mi sento profondamente una donna delle istituzioni, di cui ho massimo rispetto. Tramite loro, penso che si dimostri anche il rispetto per il pubblico, cioè la gente».

I precedenti 33 anni Rosanna Purchia li aveva vissuti al Piccolo Teatro di Milano come responsabile dell’organizzazione, produzione e realizzazione della programmazione artistica sotto le direzioni di Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Luca Ronconi («Ma non dimentichiamo Nina Vinchi, che si prese letteralmente il teatro sulle spalle per lasciare liberi i “geni” di creare, sottolinea. Una figura straordinaria per il teatro italiano e per me, come persona e professionista»). Anni di spettacoli rimasti epocali, in cui la Purchia ha mostrato le sue capacità e ha costruito una fenomenale rete di relazioni, amicizie e competenze. Che si sommano con quella «straordinaria scuola» che è stata la Nuova Compagnia di Canto Popolare, a Napoli, «in cui tutto ebbe inizio, ancora da ragazzina», confessa. Oggi la sua è una «visione» per Torino ricca e articolata, «anche se finora mi sono dedicata soprattutto a conoscere e impossessarmi della macchina amministrativa, cercando dialogo, condivisione e conoscenza reciproca. Ma ho diversi sogni nel cassetto, e qualcuno di sicuro riuscirò a realizzarlo».

Gli ultimi cinque anni sono stati spesso dominati a Torino dalla dicotomia, pochissimo fruttuosa, tra centro e periferie.
Non amo il termine periferia, e nemmeno quello troppo burocratico e amministrativo di circoscrizioni. Io lavorerò con e nei quartieri, come si diceva negli anni Settanta. D’altra parte, uno dei miei primi lavori è stato proprio a Quarto Oggiaro, quando il Piccolo Teatro di Milano m’incaricò del locale spazio di quartiere, sotto un tendone, come si usava allora. Un’esperienza straordinaria, a cui ero arrivata dopo gli anni altrettanto straordinari, a Napoli tra il 1972 e il 1976, nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, con il maestro Roberto De Simone, i fratelli Eugenio ed Edoardo Bennato miei vicini di casa a Bagnoli. Un bell’inizio, vero? Sono stata viziata dalla vita. Poi magari ci ho messo anche del mio...

Che cosa porta di queste sue attitudini ed esperienze a Torino?
Uno dei primi atti della nuova Giunta è stato proprio quello di conoscere, indagare, mappare l’identità culturale dei diversi quartieri della città. Da tempo mancava. Ci siamo incontrati tutti insieme un mese fa, al Regio. Sulla base dei risultati di questa giornata, molto operativa e aperta, con tanto di tutor per ciascuno degli 8 tavoli (uno per ogni circoscrizione), definiremo le strategie, i bandi e il piano di finanziamenti da adesso al 2023. Da tutto questo mi aspetto che emergano le diverse identità dei luoghi, la loro «missione culturale», e quindi le opportunità per l’intera città: il teatro in un luogo, il jazz in un altro, le arti visive, la musica, la danza...

Qual è la situazione attuale di Torino, dopo decenni di amministrazione di centrosinistra che molto aveva puntato sull’identità culturale e turistica della città, e dopo i cinque anni di Cinquestelle? In mezzo, varie crisi economiche, tagli ai finanziamenti pubblici, la pandemia...
Intanto voglio premettere che ciò che ho trovato arrivando a Torino è qualcosa che in altre città non esiste. La vicinanza delle istituzioni alla cultura (non solo gli enti locali, e indipendentemente dal colore politico, ma tutti i soggetti cittadini) è qualcosa di fortissimo. E non è un caso che qui i pilastri del sistema culturale, che Torino ha saputo costruire e salvaguardare, abbiano eroicamente resistito in questi anni di crisi, prima economica, poi pandemica. Ho potuto verificarlo nei miei 13 mesi al Regio, un momento durissimo ma per fortuna superato, grazie anche alla professionalità altissima di orchestra e coro e delle maestranze. Siamo stati uno dei pochi teatri a fare spettacoli in forma scenica durante il lockdown, unici in Italia, e abbiamo perfino portato qui Riccardo Muti, che non era mai venuto... Per non parlare dell’arte contemporanea, saldissima, o dei teatri, dei musei, del libro.

Qual è il ruolo di un assessore, oggi, in una grande città? E come si fa, provenendo da fuori?
Non lo so, lasciatemelo fare, sono passate solo poche settimane dalla mia nomina. Di mio, sono una persona da «dietro le quinte», non amo i salotti ma la sala macchine. Sono un’operativa. Così come accaduto al Regio, dove mi chiamò il ministro Franceschini, non voglio apparire come un’entità estranea catapultata dall’esterno. Per ora voglio conoscere, mettermi in relazione, creare occasioni di incontro. Credo che oggi l’Assessorato debba essere un soggetto capace di fornire strumenti, di agevolare, di promuovere politiche comuni. Non sarò da sola, ovvio, soprattutto per i settori nei quali non ho avuto esperienza diretta. Avrò, tra gli altri, un consulente di alto livello come Andrea Viliani, un torinese tornato in città (come responsabile curatore del Crri-Centro di Ricerche del Castello di Rivoli; Ndr) dopo aver diretto, proprio a Napoli, il museo d’arte contemporanea Madre.

Qual è la sua «visione» per Torino?
Il progetto ad ampio raggio è quello di costruire un futuro per la città, in primis cercando di costruire una città più smart, come da programma del sindaco. C’è poi una questione economica generale che è ovviamente difficile, dal punto di vista strutturale. Per ora il lavoro strategico è su un arco triennale fino al 2024. La domanda generale è: c’è abbastanza domanda per tanta offerta, e per le proposte che verranno? C’è l’esigenza di mettere ordine in tanta cultura, anche nel calendario? Sì, io dico: l’ordine aiuta a capire. Solo dopo viene il problema dei finanziamenti. In pratica, voglio concentrare l’offerta, metterla a sistema e in dialogo. Ad esempio, in autunno (il tempo della «Torino che pensa») la Biennale Democrazia, opportunamente, deve alternarsi con la Biennale Tecnologia, anche per esigenze di comunicazione. Poi viene il mese del contemporaneo attorno ad Artissima, e del cinema, con i suoi festival. Poi ci sono i grandi eventi sportivi, attorno alle AtpFinals di tennis. E in primavera la Torino che legge, con il Salone.

E per l’estate?
È il momento del mio sogno, per cui però cerco ancora finanziamenti. Torino ha una delle massime concentrazioni di teatri e orchestre, dal Regio al Lingotto, dalla Nazionale della Rai alla Filarmonica. E poi Stabile, Teatro Piemonte Europa, il sistema dei teatri indipendenti... Ce lo ricordiamo che Mito, nato dal Settembre Musica di Giorgio Balmas, è l’unico festival internazionale di musica classica in Italia? Per non parlare di Torino Danza. Ecco, in questo panorama nasce il mio sogno, che spero di poter comunicare presto, superata ogni scaramanzia: un progetto di valore e dimensioni internazionali, in contemporanea e con unica programmazione tra Torino e Milano. Se voglio vedere Pina Bausch rediviva devo venire qua; se voglio vedere uno spettacolo di Grüber o di un altro grande regista, e questo si tiene a Milano, devo andare là. Certo, bisognerà pensare in grande, con rapporti con le Ferrovie dello Stato, ad esempio. Ci vorranno grandi finanziamenti, anche per un paio di mostre internazionali (penso anche alla Fotografia), che dovranno attrarre pubblico da tutta Europa, e anche le infrastrutture, che ora in parte mancano. Ma posso annunciare l'avvio del progetto, che si concluderà nel 2026, di un grande polo culturale a Torino Esposizioni: non solo la Biblioteca Civica, ma il rifacimento completo del polo del teatro e della danza. Sarà una delle sedi del mio sogno. Da realizzare in comunità d’intenti con Milano, anche su input del sindaco: mai più rivalità, ma collaborazione.

Ha un sogno irrealizzabile?
Un deposito dei musei cittadini, che conservano un patrimonio straordinario e non accessibile al pubblico. Pensiamo ad esempio alle necessità di ingrandirsi che ha la Gam, con tutte le sue opere oggi invisibili... Ecco, sarebbe bello dare questo servizio unico ai musei della città e non solo, e ai suoi appassionati: il Museo dei Musei.

Questa è la seconda delle interviste ai nuovi assessori comunali alla Cultura dopo Tommaso Sacchi di Milano.

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