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Le insidie dei titoli

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Antonio Dias era appena arrivato a Milano dal Brasile, dov’è nato nel 1944, quando Giorgio Marconi lo volle con sé nel suo Studio Marconi. Nel 1969 gli allestì la prima personale; altre due sarebbero seguite, fino a quando, nel 1995, quella che intanto era diventata la Galleria Giò Marconi presentò il nucleo di opere riproposte ora, dal 22 febbraio al 14 aprile, nella rassegna «Antonio Dias. Una collezione», sempre nella stessa storica sede, ma sotto l’egida dell’attuale Fondazione Marconi.

Si tratta di opere storiche, degli anni tra il 1968 e il 1972, appartenenti alla collezione personale del gallerista, dalle quali emerge con evidenza la cifra della ricerca di Dias, fondata sull’indagine di un numero limitato di segni, esplorati nelle loro valenze percettive, chiamando dunque direttamente in causa l’osservatore. Ridotti di numero ed essenziali nelle forme, grafiche e geometriche, i segni di Dias sono spesso accompagnati da parole il cui compito (così come accade nei titoli) non è mai esplicativo ma, se mai, teso a depistare l’osservatore.

Le sue opere poggiano infatti su una rigorosa ricerca concettuale, com’è provato anche dalla serie «The Tripper» («il viaggiante», traduce lui), dove miriadi di puntini candidi su fondo nero inducono l’osservatore a riconoscere l’immagine di un cielo stellato. Così non è per l’autore che, infatti, congiunge alcuni punti con linee bianche, quasi fossero i percorsi del «viaggiante». Il catalogo è quello del 1995, arricchito dalla riproduzione delle opere acquistate nel frattempo da Marconi.

Ada Masoero, 18 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

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