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Le donne, i cavallier, i quadri e i pittori

Cristina Valota

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A 500 anni dall’Orlando furioso, influssi incrociati tra Ariosto e gli artisti

Se sui banchi di scuola ci è stato insegnato che Ludovico Ariosto (Reggio nell’Emilia, 1474-Ferrara, 1533), nel comporre il suo monumentale poema cavalleresco Orlando furioso, non potè prescindere dalla tradizione del ciclo carolingio e del ciclo bretone, e quindi dall’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, niente invece ci è stato detto sui riferimenti iconografici cui il poeta guardava durante la stesura del suo capolavoro.

In occasione dei 500 anni della prima edizione del poema, apparsa a Ferrara il 22 aprile 1516 per l’editore Giovanni Mazocco (è esposto un esemplare proveniente dalla British Library di Londra), la Fondazione Ferrara Arte e il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo hanno organizzato la mostra «Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi», aperta dal 24 settembre all’8 gennaio nel Palazzo dei Diamanti di Ferrara.

Per fornire una narrazione per immagini dell’universo ariostesco fatto di battaglie e tornei, cavalieri e amori, desideri e incantesimi («Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori», come recita il primo, celeberrimo verso del poema), i curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura, coadiuvati da un comitato scientifico composto da studiosi di Ariosto e da storici dell’arte, hanno selezionato un insieme eccezionale di un’ottantina di opere tra dipinti, sculture antiche e rinascimentali, arazzi, manoscritti miniati, strumenti musicali, armi, ceramiche invetriate («Scipione l’Africano», 1500 ca, di Andrea Della Robbia dal Kunsthistorisches Museum di Vienna) e preziosi manufatti, che fatalmente riuniscono i nomi di alcuni dei più importanti artisti del Rinascimento italiano.

Se l’olifante dell’XI secolo (Tolosa, Musée Paul-Dupuy), un corno da caccia ricavato da una zanna di elefante noto come «Corno d’Orlando» perché secondo la leggenda è quello che il paladino di Carlo Magno fece risuonare tra i Pirenei, e l’arazzo con «La battaglia di Roncisvalle» (1475-1500 ca) dal Victoria and Albert Museum di Londra rimandano, idealmente, a uno dei nuclei narrativi dell’Orlando furioso, ossia la guerra tra cristiani e saraceni, così come il foglio di Leonardo con una «Scena di battaglia» (1517-18 ca) dalla Royal Collection di Londra suggerisce una visualizzazione veritiera di un cruento scontro militare, è invece ipotizzabile che alcune opere furono diretti veicoli di immagini per il poeta, che ebbe modo di vederle personalmente. È il caso, ad esempio, delle monumentali ante d’organo raffiguranti «San Giorgio e il drago» (l’effigie del Santo incarnava in città l’idea stessa del cavaliere) e l’«Annunciazione», ora conservate nel cittadino Museo della Cattedrale ma realizzate da Cosmè Tura nel 1469 per il Duomo di Ferrara.

L’iconografia del martire vincitore sul male è richiamata in mostra anche dal «San Giorgio e il drago», 1440 ca, di Paolo Uccello in arrivo dal Musée Jacquemart-André di Parigi, che i curatori presentano come opera evocatrice, al pari dell’altrettanto fiabesca «Liberazione di Andromeda», 1510 ca, di Piero di Cosimo dagli Uffizi di Firenze, della liberazione di Angelica da parte di Ruggiero o di quella di Olimpia per mano di Orlando. Simile suggestione dovettero esercitare sulla fantasia di Ariosto, che si trasferì a Ferrara nel 1484 e che nel 1504 entrò al servizio del cardinale Ippolito d’Este (al quale è dedicata la prima edizione dell’Orlando furioso) e poi nel 1517 del duca Alfonso I, i capolavori che il poeta ebbe occasione di vedere nello Studiolo di Isabella d’Este durante una visita a Mantova nel 1507, dove giunse con le felicitazioni di Ippolito e Alfonso alla loro sorella per la nascita del figlio Ferrante Gonzaga.

In quell’occasione, oltre ad allietare la marchesa, costretta a letto dal difficile parto del terzogenito, con la lettura dei primi versi del poema che stava componendo (Isabella ringraziò il cardinale perché il poeta «cum la narratione de l’opera che compone» le aveva fatto trascorrere «due giorni, non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo»), Ariosto vede, ad esempio, «Minerva caccia i Vizi dal Giardino delle Virtù» (1497-1502) di Andrea Mantegna (in arrivo eccezionalmente dal Louvre di Parigi): la complessa scena gli offrì lo spunto per la descrizione del corteo di esseri mostruosi in cui Ruggiero si imbatte sul’isola della maga Alcina, narrata nel VI canto del poema. Alfonso I, invece, si faceva leggere le bozze dell’Orlando furioso nei suoi appartamenti nel Castello Estense dove, sotto il suo governo (1505-34), lavorarono Dosso Dossi, Michelangelo, Fra Bartolomeo, Giulio Romano, Tiziano, spesso in una situazione di reciproca suggestione con Ariosto. È il caso del «Baccanale degli Andrii» (1523-26) di Tiziano, che torna in Italia dal Prado di Madrid dopo oltre quattrocento anni, e che a conclusione del percorso espositivo ricorda, nel morbido nudo di Arianna in primo piano, l’altrettanto sensuale Olimpia ariostesca.

Cristina Valota, 12 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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