La seconda vita di Stefano Cortesi

Luganese da sempre, londinese per scelta, è passato dal mondo della finanza all’attività di gallerista: «Il problema in Italia è la burocrazia unita al fisco pesante, ma non escludo di aprire prima o poi una sede anche a Milano»

Ada Masoero |  | Londra

Per trentaquattro anni Stefano Cortesi ha operato, con grande successo, nel mondo della finanza e delle banche. Poi, nel 2012, ha deciso di trasformare la sua passione, l’arte, in una professione. E nel 2013 ha aperto la Cortesi Gallery, prima a Lugano poi, nel 2015, anche a Londra: «Avevo 58 anni, non ero certo in età da pensione ma il mondo della finanza era troppo cambiato e non avevo più stimoli. I figli (Andrea, che ora ha 33 anni, e Lorenzo, 28, Ndr) condividevano la mia passione, così ho pensato a un progetto a lungo termine e ho fondato, in successione, le due gallerie». Come dargli torto?

Dopo neanche cinque anni di attività, la Cortesi Gallery ha saputo guadagnarsi una credibilità internazionale grazie alla sua programmazione intelligente, prima mirata sulla diffusione all’estero della migliore arte italiana degli anni Sessanta e Settanta, poi aprendosi anche al panorama internazionale e continuando a muoversi nell’ambito di quel rigore della ricerca artistica che Stefano Cortesi aveva scelto sin dall’inizio come suo campo d’azione: non a caso a Londra si è appena inaugurata la prima personale nel Regno Unito di Gianfranco Pardi (fino all’11 marzo), mentre a Lugano, dal 16 febbraio al 7 aprile va in scena «Louise Nevelson. Assemblages e Collages 1960-1980», a cura di Bruno Corà: «Siamo una galleria di cultura italiana, precisa Stefano Cortesi, ma abbiamo voluto allargare l’osservazione agli artisti europei (dal tedesco Gruppo Zero alle Nuove Tendenze di Zagabria sviluppatesi intorno a Ivan Picelj) e ora anche agli Stati Uniti, perché siamo molto interessati alle relazioni che in quegli anni s’intrecciavano tra figure come Fontana, Manzoni e altri, e le realtà internazionali».

Quando ha iniziato a collezionare arte e quali artisti ha acquistato per primi?
Era la fine degli anni Ottanta quando per me è scoccata la scintilla. Cercavo un accrescimento culturale ma presto è subentrato il desiderio di creare una collezione. Il primo dipinto che ho comprato era di De Nittis, poi sono arrivati Oscar Ghiglia e Plinio Nomellini, ma presto ho capito che con questo tipo di arte, che pure amavo, sarei rimasto chiuso entro i confini italiani. La seconda scintilla è scoccata con Boetti: è stato lui a «convertirmi» all’arte più recente. Mi hanno colpito la sua «facilità» estetica e la sua densità concettuale, e ho acquistato prima un grande arazzo con l’alfabeto farsi, poi una «biro» con gli aerei. Partendo di lì, ho poi voluto approfondire l’arte italiana del dopoguerra, da Fontana a Castellani, Bonalumi, Scheggi, e poi Paolini e l’Arte povera, Paladino e De Maria... Disponevo di buoni mezzi finanziari, seppure non importanti come occorrerebbe ora per acquistare quelle opere. E non ho più smesso.

Perché ha deciso di aprire le gallerie a Lugano e a Londra?
Lugano non è stata una scelta: già ci vivevo da tempo per la mia precedente attività. Lì la qualità della vita è davvero eccellente: abitando in collina, si può vivere come in vacanza ma avendo una piccola città come Lugano a pochi minuti e una grande città come Milano a breve distanza. Senza contare che la Svizzera è ottimale per chi desidera intraprendere attività economiche: c’è una fiscalità equa, pochi vincoli burocratici e, per chi si occupa di arte, ci sono i porti franchi. Poi, volendo creare un progetto ambizioso, anche per i miei figli, ho puntato su Londra, dove ora loro si alternano. Londra è la città più importante per il mercato dell’arte «post war» e contemporanea, ha una fiscalità «corporate» molto favorevole e ha una burocrazia leggera. A due anni dall’inaugurazione della galleria londinese, siamo molto soddisfatti.

Non pensa di aprire anche a Milano?
Milano in questi ultimi due anni ha vissuto una forte ripresa, anche nell’arte, con realtà come la Fondazione Prada, Miart e le iniziative nelle sedi istituzionali cittadine. E all’estero è percepita come la vera capitale italiana, grazie anche alla moda e al design. Purtroppo l’handicap dell’Italia, lo sappiamo bene, sta nella sua tassazione e nei troppi lacci burocratici. Ma non è escluso che in futuro si possa aprire una sede anche a Milano.

Lei ha puntato sulla migliore arte italiana del dopoguerra, che fino a qualche anno fa, salvo pochi nomi, era trascurata dal mercato internazionale: come spiega il grande successo attuale?
Siamo in presenza di una forma d’arte e di artisti che hanno rappresentato un’autentica avanguardia rispetto a ciò che accadeva altrove. È stata una grandissima arte, in stretta relazione con il resto d’Europa e del mondo: pensiamo a Manzoni e Castellani e ai loro rapporti con il Gruppo Zero e l’arte ottico-cinetica, o ai minimalisti americani che, non dimentichiamolo, sono arrivati qualche anno dopo i «tagli» di Fontana (che c’è di più minimalista di un suo «taglio» bianco?) e gli «Achrome» di Manzoni. E poi c’è l’ottimo lavoro svolto dalle gallerie italiane all’estero che, sommate alle Italian Sales delle grandi case d’asta, hanno stimolato i nostri concorrenti internazionali a occuparsi anch’essi di quell’area dell’arte italiana, tra l’altro all’inizio fortemente sottovalutata. Il sistema privato soprattutto (fondazioni e gallerie) ha dato una forte spinta alla nostra arte di quegli anni.

Crede che questo successo durerà?
Credo di sì, perché siamo di fronte ad artisti di grande qualità e non parlo solo delle star del mercato, ma anche di autori come Grazia Varisco, Gianni Colombo, Rodolfo Aricò, Gianfranco Pardi... Certo, nel mercato dell’arte, come in tutti i mercati in cui circola molto denaro, c’è spazio per movimenti speculativi, ma io continuo a vedere una grandissima attenzione al riguardo. Non si tratta di una moda ma di un vero interesse culturale, perché, lo ripeto, siamo di fronte a un’arte vera e innovativa.

Chi sono i vostri collezionisti?
Partendo da Lugano in un momento in cui l’arte italiana aveva un ottimo riscontro, abbiamo avuto la fortuna (o forse la capacità) di allargare da subito l’origine geografica dei nostri collezionisti, che sono non soltanto svizzeri ma anche olandesi, inglesi, belgi, americani. Non nascondo che siamo orgogliosi di questo. Ora dobbiamo solo crearci un po’ più di «storia» per accedere alle massime fiere internazionali, sebbene già siamo presenti, oltre a Bologna, Miart e Artissima, in altre fiere importanti come quelle di Ginevra e Bruxelles e all’Armory Show di New York.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Ada Masoero