L’indomabile signora del restauro

Pinin Brambilla Barcilon è stata una delle figure più eminenti del ‘900

Pinin Brambilla
Ada Masoero |

Era uscita da pochi giorni dall’ospedale Pinin Brambilla Barcilon quando, il 12 dicembre scorso, è deceduta a 95 anni. Lucidissima, ha lavorato sino alla fine, fedele alla sua natura di «lombardaccia», come amava dire di sé. Con lei scompare una delle figure più eminenti del restauro del ‘900, e non solo perché le fu affidato il recupero del disastrato dipinto murale dell’«Ultima Cena» di Leonardo, nel Refettorio delle Grazie a Milano (che la impegnò in un vero corpo a corpo per vent’anni, fino al 1999, esponendola a critiche tanto feroci quanto immotivate), ma perché lei, formata in una scuola per così dire «antica», seppe compiere il passo che l’avrebbe condotta a servirsi, magistralmente, di tutti gli strumenti più avanzati messi a disposizione dalla ricerca scientifica, fino a creare e sviluppare metodologie innovative.

Chi scrive la ricorda, tra molte altre occasioni, sui ponteggi degli affreschi meravigliosi di Masolino da Panicale nel Battistero di Castiglione Olona, degli squisiti affreschi profani della «Sala dei Giochi» in Palazzo Borromeo a Milano, e su quelli dell’ex Chiesa di San Marco, a Vercelli dove, sotto molti strati di scialbo, scoprì un importante ciclo di affreschi dell’ultimo ’400.

Ma i suoi interventi sono stati innumerevoli, così come le pubblicazioni, e le relazioni a convegni internazionali (il suo curriculum occupa 28 pagine), perché nel suo lunghissimo percorso Pinin Brambilla («aggiunga Barcilon, per favore», ripeteva a ogni intervista) ha lavorato su tutti i più grandi maestri, dagli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova a dipinti come la «Pala Montefeltro» di Piero della Francesca e la «Cena in Emmaus» di Caravaggio della Pinacoteca di Brera e, in altri musei, è intervenuta su opere di Giovanni Bellini, Mantegna, Lotto, Cosmè Tura, Tiziano, Veronese, Tiepolo, fino a Lucio Fontana e Man Ray.

Con un tale curriculum, avrebbe potuto essere arrogante, boriosa. Non lo era affatto, come tutte le persone di vero valore, e non era nemmeno brusca, come qualcuno diceva. Solo riservata, secondo il modello delle famiglie lombarde di un tempo, ma scopriva facilmente un’intensa affettività quando parlava dei suoi lavori e delle emozioni fortissime che provava, giorno dopo giorno. Senza quello scudo, forse non avrebbe potuto superare gli attacchi che subì quando, con Carlo Bertelli, allora soprintendente, decise di andare a caccia del «vero» Leonardo sotto le ridipinture che il fragile capolavoro, presto ridotto a «una macchia abbagliata» (Vasari, 1568), aveva subito nei secoli.

«Quello non era più Leonardo, ci disse nel 2015, in occasione della pubblicazione del suo libro La mia vita con Leonardo. Quello che vedevamo era il frutto di restauri, ridipinture, sporcizia, cadute di colore, sollevamenti… Lo scoprii con certezza quando, poco dopo, venne presa la decisione di avviare dei saggi di pulitura sulla veste di Simone: fu allora che il colore di Leonardo affiorò con una qualità e una brillantezza inaspettate. Tanto che quando Cesare Brandi, contrario da sempre al restauro, lo vide (ricordo ancora la mia ansia quando entrò nel Refettorio!), cambiò opinione e suggerì di lavorare anche sul manto. Per fortuna avevo l’appoggio di Carlo Bertelli e di Renzo Zorzi (il manager di Olivetti, che supportò l’intera operazione, Ndr): furono loro a darmi la forza per continuare. Ma si sa che quando si è in prima linea si sarà colpiti per primi. Io però mi ero assunta quell’impegno e andai avanti, cercando di non prestare ascolto alle critiche malevole per non deconcentrarmi».

Pinin Brambilla Barcilon, l’indomabile signora del restauro, fondatrice nel 2005 di un polo d’eccellenza come il Centro per la Conservazione e il Restauro «La Venaria Reale», che ha diretto sino alla fine, è tutta racchiusa in queste frasi.

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