Epidemie nell'arte in Italia | MILANO

I teatri del dolore in Lombardia. Pittori e scultori hanno saputo penetrare nel profondo l’atmosfera tra le pestilenze di San Carlo (1576) e del cardinal Borromeo (1630)

Intagliatore lombardo 1430 circa «Compianto sul corpo di Cristo» Lodi, Duomo
Filippo Maria Ferro |  | MILANO

Il silenzio, le sirene delle ambulanze ne incrinano il rarefatto spessore. «Tu vedi!», così padre Cristoforo indica a Renzo l’agonia di don Rodrigo. Si muore in solitudine, il respiro è in affanno. La virulenza del morbo, e il sacrificio, tornano a colpire Milano e la Lombardia. In breve tempo si è ricreato lo scenario che evoca Manzoni e il suo grande romanzo, i suoi personaggi sono più che mai attuali.

E si accendono, in sinestesie vivide, i ricordi figurativi e ci portano da Manzoni alle Cappelle dei Sacri Monti, ai teleri carliani del Duomo milanese. Soprattutto i pittori e gli scultori hanno infatti saputo penetrare nel profondo l’atmosfera tra le due pestilenze, quella di San Carlo e quella del cardinal Federigo Borromeo. Un’intuizione che ha innervato l’inquieta poetica di Giovanni Testori. La privazione, lo sgombramento del campo visivo, che anche ora proviamo, ha intensificato l’acuità visiva di questi artisti.

Nel Collegio Borromeo di Pavia, in un grande affresco del salone dove si tenevano le riunioni dell’Accademia per gli alunni della nuova classe dirigente, Cesare Nebbia illustra gli eventi di pietà durante la peste di Milano del 1576. Nebbia racconta i momenti salienti della storia dell’epidemia, la processione lenta e solenne per le vie della città sino alle capanne dei malati, il primo soccorso ai colpiti dal contagio, il conforto agli ammalati, ormai del colore della cera, sul letto di dolore. Una cronaca presto trasformata in epopea.

È al Cerano che si chiede di far rivivere tra le navate del Duomo a Milano l’impatto crudo, gli spazi allucinati degli eventi. Attraverso smisurati teleri, Cerano dilata i fotogrammi di momenti salienti ed evoca per i nostri sensi l’incubo in tutta la sua fisicità, con intensità ingombrante. Il Cardinale Arcivescovo, sulla mula bianca, visita i malati del lazzaretto, porta loro generi di prima necessità e biancheria e tessuti: ha strappato tende e arredi del palazzo arcivescovile per confezionare i giacigli, le lenzuola e le coperte. Un atto di carità sacra e insieme un’ammirevole dispositivo di protezione civile.

Un’immagine che ritroviamo, con impressionante continuità, quando nelle sequenze dei telegiornali vediamo le corsie di terapia intensiva e il vuoto surreale dove si allestisce il reparto Covid-19 nei locali della Fiera. Oggi come allora, dichiara il Cerano in altri fotogrammi in cui san Carlo innalza le croci per le vie deserte o distribuisce i suoi averi per le emergenze, cambiano gli spazi della pietà, la loro regia, ma immutato e immanente rimane il gesto della misericordia, l’atto totale d’amore, l’incontro a mani nude con anime e corpi malati e in miseria.

Con Giulio Cesare Procaccini Cerano mette poi in scena le guarigioni miracolose: ancora la malattia e la cura salvifica sono raffigurate in un’atmosfera di realtà condivisa, dove la fede coincide con l’etica di un buon stare al mondo e il sacro si offre nella devozione domestica, in una dimensione di naturalezza e di autenticità.

Se i quadroni del Duomo illustrano il complesso riverbero sociale del morbo e dichiarano che l’esistenza presuppone il mondo tanto più fortemente quando il contesto delle cose si scolora, è Tanzio da Varallo a metterci a confronto con i dilemmi di vite ferite e sconvolte, a condurci con lucidità impietosa, se non fosse sorretta da sublime pietà, là dove il mondo è sospeso e la vita si riduce alla nuda struttura.

«San Carlo che amministra la Comunione», nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio a Domodossola, è l’immagine assoluta e potente di come si possa dare un senso, e una speranza di salvezza, a chi altrimenti scomparirebbe senza rito, in una solitudine senza ritorno. I malati cercano uno sguardo, un segno, un gesto, un filo di relazione da portare con sé mentre sale l’ombra.

Ha scritto un amico psichiatra, Gilberto Di Petta, in una notte di pronto soccorso in questo mese di marzo: «Nel caso diventassimo terminali, ancorché lucidi, la “damnatio mortis” maggiore sarebbe quella di lasciare il mondo in solitudine totale, senza neppure uno sguardo o un contatto, poiché non potremmo neppure salutare per l’ultima volta le persone a noi più care, se non nel nostro immaginario. E per loro sarebbe lo stesso. Anche la morte da Covid-19, è una scomparsa senza rito. Una morte clandestina, come è clandestina la vita che ci è rimasta da condurre».

In questo capolavoro, un punto alto della pittura europea dell’epoca, Tanzio mostra di comprendere appieno questa angoscia e dà lucida, metallica evidenza alla figura mistica del cardinale che si china per un gesto di comunione con le anime e con i corpi. L’accompagnano i membri della Confraternita e saranno i loro occhi a rispondere ai volti imploranti nel momento della fine, esattamente come gli sguardi che si cercano e si perdono nella penombra delle corsie tra i malati e i medici della terapia intensiva.

Dice Cesare Pavese «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi… I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio». Un malato è già rotolato al suolo, la testa è vicina alla farfalla notturna posata sul marmo come un presagio e nella «lontananza» la vista gelida delle capanne suggella la paura, lo sgomento.

A loro volta queste immagini di peste evocano altre stagioni di dolore per la Lombardia e l’Italia del Nord, la stessa area oggi segnata dai confini delle zone rosse. Per un amaro ricorso del destino tra Quattrocento e metà Cinquecento testimonianze toccanti vengono dalle zone di Bergamo e Brescia. Qui sono state create, sempre nel fuoco di serpeggianti pestilenze, opere d’arte volte a contemplare la crisi della presenza, a dare forma a domande brucianti sul senso della vita e della morte.

Qui i confratelli, i disciplini ispirati dalla predicazione francescana, hanno commissionato agli artisti di mettere in scena questi dialoghi estremi in «teatri del dolore»: i «Compianti sul corpo del Cristo», vere installazioni per celebrare l’irrecusabile dramma della morte. Siamo in tempi e in luoghi in cui la sofferenza e la morte sono esperienza quotidiana, si imprimono in sguardi di paura. Questi uomini eletti si riunivano e si assumevano il compito di soccorrere i malati e di seppellire i morti; l’esortazione al loro impegno, sacro e civile, si confermava in presenza di una contrizione pubblica e solenne.

Il «Mortorio», il «Sepolcro», il «Mistero della pietà». Il «Compianto sul corpo di Cristo»: nella penombra di una cappella sette attori sulla scena e un corpo morto, isolato in primo piano, irrigidito e segnato delle torture subite e della pena. Otto figure scolpite nella dura fibra del legno o plasmate in terracotta quasi a toccare con mano il palpito della vita. La missione dello scultore è «dar figura alle lacrime» attorno al corpo del Cristo illustrando le gradazioni del lutto e del dolore, sino al diapason del «pianto feroce» della Maddalena.

Possiamo immaginarli, confratelli e fedeli, in preghiera davanti a queste icone, messaggi radicali di quanto di drammatico vi è al mondo. Violenza, passione e catarsi, la temperatura di una tragedia classica tradotta in piena adesione e comunicazione con la gente, un linguaggio che sa unire nobili e umili in un sentimento comune. Se ne conservano esempi memorabili.

A San Satiro a Milano, nel tempio del Rinascimento degli Sforza, Agostino De Fondulis traduce i modelli grafici sublimi di Andrea Mantegna e la forza scultorea di Donatello, riunendo attorno al corpo straziato un concorso di attori affannati (nell’aspirazione di cancellare ogni stigma e ogni differenza di razza non manca di includere la zingara mora).

Sono gli interpreti più autorevoli della scultura lombarda e piemontese a diffondere questi complessi figurativi portandoli ai massimi livelli espressivi: le dinastie dei De Donati, dei Del Maino, dei da Corbetta. Sino alla cappella XL del Sacro Monte di Varallo, dove Giovanni D’Enrico, il fratello di Tanzio, sigilla un dialogo epocale con tutti questi maestri, in particolare con i fratelli De Donati, autori della «Pietra dell’Unzione» al Sacro Monte, e con la tenerezza infinita di Gaudenzio Ferrari.

I gruppi scultorei in cui passione, disperazione e il respiro della morte si fanno più crudi si trovano proprio nelle città e nei borghi che i bollettini della televisione nominano con frequenza: Lodi, Crema (Ripalta Vecchia), Brescia, Bagnolo Mella, Canneto sull’Oglio, Padenghe sul Garda. Qui opere d’arte eccelse gridano lo scandalo della morte e insieme la forza della vita e la verità dell’esistenza, opere messe in oblio da una abitudine dettata da estetiche idealistiche e dalla rimozione che la nostra cultura ha operato e va operando, con volontà anestetica e scellerata indifferenza, sui tragici interrogativi della coscienza.

Al dramma si assommano nostalgia e commozione struggenti nello stendardo raffigurante la messa a morte di San Sebastiano eseguito da Vincenzo Foppa per Orzinuovi, una sinfonia di grigi padani in cui. Illustrando quello che appare come il «martirio di uno zappaterra» (Roberto Longhi) il coraggio di un sommo artista ha saputo opporre il «dialetto» della sua gente alla «lingua» aulica del Rinascimento. «Salvarla, io non so come; ma salvarla, questa povera vita di morte; salvarla …», ci dice Tanzio con le parole di Testori, suo interprete d’eccellenza, e la speranza è il sentimento che il popolo di Camasco, un paese della Valsesia, affida all’altro santo di peste, san Rocco, il pellegrino venuto da lontano. Un voto che facciamo nostro, una preghiera alla quale ci associamo, con fervore.

L'autore, psichiatra e storico dell’arte, conta, tra i suoi studi, La peste nella cultura lombarda, edito in occasione della mostra su «Il Seicento lombardo» tenuta a Milano, Palazzo Reale, nel 1973. Attualmente sta pubblicando con Renzo Dionigi, chirurgo e già Rettore dell’Università dell’Insubria, un catalogo dei Compianti in Lombardia e in Piemonte.


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© Riproduzione riservata Clemente Zamara «San Giovanni (particolare del Compianto sul corpo di Cristo)» Canneto sull’Oglio, Sant’Antonio abate Giovanni D’Enrico (e Gaudenzio Ferrari) «Cappella XL della Pietà» Varallo Sesia, Sacro Monte Cesare Nebbia «San Carlo e la peste a Milano» Pavia, Almo Collegio Borromeo Agostino De Fondulis «Compianto sul corpo di Cristo» Milano, San Satiro Clemente Zamara «Madonna (particolare del Compianto sul corpo di Cristo)» Bagnolo Mella, Santa Maria della Stella Vincenzo Foppa «Stendardo di Orzinuovi» Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo Antonio D’Enrico il Tanzio da Varallo «San Carlo comunica i malati di peste» Domodossola, Santi Gervasio e Protasio Giovan Battista Crespi il Cerano «San Carlo visita e soccorre i malati di peste» Milano, Duomo Giovan Pietro e Giovanni Ambrogio De Donati «Pietra dell’Unzione» Varallo Sesia, Pinacoteca Angelino Cairano (attribuito a), Compianto sul corpo di Cristo, Brescia, Santa Maria del Carmine Giacomo e Giovanni Angelo Del Maino, Compianto sul corpo di Cristo, Bellano (Lecco), Santa Marta
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