«With Sun» (2022) di Megan Rooney © Megan Rooney

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«With Sun» (2022) di Megan Rooney © Megan Rooney

Fughe astratte alla Fondation Louis Vuitton di Parigi

L’inebriante mostra si concentra su Megan Rooney, Sam Gilliam, Steven Parrino, Niele Toroni e Katharina Grosse. Ma l’enfasi cromatica nega interpretazioni più ampie del loro lavoro

Sono venuta a Parigi in pellegrinaggio, in realtà per vedere il nuovo murale di Megan Rooney alla Fondation Louis Vuitton. È una delle più formidabili pittrici astratte in circolazione. Mentre mi dirigevo lì, attraversando il parco che ospita l’edificio di vetro di Frank Gehry, mi sono chiesta che cosa significhi oggi l’astrazione. In particolare, pensavo al pastello di Joan Mitchell del 1975, in cui una massa di ocra incandescente è sovrapposta a macchie di blu violaceo, con la poesia di James Schuyler, Daylight, scritta sopra a macchina:

E quando pensavo,
«Il nostro amore potrebbe finire»
il sole
continuava a splendere

Come possono quattordici parole su quattro righe dire così poco e così tanto?

La tensione tra moderazione ed espressione è fondamentale per gran parte della migliore pittura astratta. E nonostante le numerose profezie che decretano la fine della sua storia, soprattutto una volta che l’età d’oro dell’Espressionismo astratto degli anni Cinquanta venne soppiantata dal Pop e dalla performance, dal video e dal concettualismo («Arrivederci, Modernismo», scrisse il critico Carter Ratcliff nel 1974), in qualche modo ha continuato a brillare.

La Fondation Louis Vuitton (FLV), dove quest’autunno si terrà una retrospettiva di Joan Mitchell (in tournée dal San Francisco Museum of Modern Art e dal Baltimore Museum of Art), è solo un esempio di quanto hanno fatto musei, gallerie commerciali e istituzioni private per mantenere accesa quella luce, in risposta anche a una recente ondata di interesse popolare e critico per le caratteristiche transnazionali dell’astrazione nel dopoguerra.

L’installazione di Rooney è stata commissionata per la sala d’apertura della mostra estiva del FLV, «Fugues in Colour», che riunisce cinque artisti internazionali appartenenti a diverse generazioni ma influenzati dalle eredità di questi movimenti: oltre a Mitchell, vi sono esposti Sam Gilliam, Katharina Grosse, Steven Parrino e Niele Toroni.

Il concetto della mostra è esteso: il catalogo la descrive come un «trampolino di lancio» in cui «il colore si libera da tutte le costrizioni e riafferma il suo ruolo primario». Gli artisti sono stati a lungo inebriati dal colore, essendo il mezzo con cui noi, creature sensibili alla luce, ci orientiamo nel mondo. Ma si parla anche del potere del colore come metafora ed espressione: per dirla con Roland Barthes, «il colore è come una palpebra che si chiude, un piccolo svenimento». Il che mi fa pensare a David Batchelor e Angela de la Cruz e Ann Veronica Janssens e Yves Klein e Melanie Smith e James Turrell e a tutti gli altri artisti ubriachi di colore che avrebbero potuto trovare casa qui.
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Il titolo «Fugues in Colour» esorta anche a un parallelismo con la musica: non tanto come indagine sulla storia di questo tema, quanto come un ritornello melodico introdotto da una voce e poi sviluppato dalle parti successive. La seconda sala si apre con tre straordinari drappeggi di Gilliam sospesi al soffitto a forma d’arco in modo tale da accentuare la liquidità del loro motivo.

Gilliam ha descritto il 1968, l’anno in cui ha iniziato a dipingere i suoi drappi, come «un anno di rivelazione». Martin Luther King era appena stato assassinato e c’erano stati quattro giorni di disordini a Washington DC, dove l’artista si era da poco trasferito. Le sue tele grezze, macchiate da pozze di vernice e poi piegate e annodate in complesse e sensuali superfici, sembrano portare con sé tutto ciò di cui un corpo può godere.

Pur non facendo esplicito riferimento al movimento per i diritti civili, Gilliam aveva ben chiaro che «l’atto espressivo di fare un segno e appenderlo nello spazio è sempre politico». C’è qualcosa nel tenero piegarsi della tela, ad esempio, che evoca gli striscioni portati per le strade in secoli di proteste per la giustizia sociale. Il pannello descrittivo sulla parete offre eccellenti dettagli sulla tecnica utilizzata per ottenere i drappeggi: vernice acrilica diluita e tamponamento con polvere di alluminio, ma forse l’attenzione al «potere lirico e vibrante del colore [volto a ridefinire] l’architettura di Frank Gehry» smorza un po’ il suo spirito politico.

Questo approccio formalista è accentuato dal fatto che Gilliam è stato accostato a Steven Parrino, le cui tele informi sono descritte come un «togliere il colore dal dipinto per lasciarlo fluire nello spazio». Ciò crea un po’ di confusione, dal momento che la maggior parte dei suoi tondi malconci e delle sue tele accartocciate sul pavimento sono di colore argento industriale o monocromatici. (Vi invito a cercare su Google «Il nero è un colore?» per essere attirati nella tana del coniglio).

Parrino non era una figura impegnata politicamente (troppo preso dall’essere un ribelle newyorkese senza causa), ma desiderava che la sua «forma mutante di pittura deformalizzata... parlasse della vita», ed è impossibile capire che cosa questo potesse significare, o chi fosse la vittima designata per la violenza delle sue opere.

Toroni, che vive e lavora ancora a Parigi, deve essere stato contento di avere una piccola sala tutta per sè, dato il minimalismo silenzioso e ossessivo dei suoi dipinti, per i quali stende la vernice a intervalli regolari di 30 cm usa un pennello di 5 cm. Ci viene detto misteriosamente che i «tondi con i “rossi” di Bordeaux derivano dai segni che l’artista ha impresso sulle botti di vino». Ancora una volta, mi chiedo perché e a quale scopo.
La parola «fugue» deriva dal latino «fuga» e le idee di rifugio e di fuga si fanno sentire con forza nelle due nuove commissioni a parete, visibili solo per quest’estate. Grosse, la cui opera «Splinter» adorna lo spazio più vasto dell’ultimo piano, nonché le pagine iniziali del catalogo e le locandine pubblicitarie, è chiaramente destinata ad essere il climax della mostra. L’eruzione di colore sul pavimento e sulle pareti è di sicuro impatto visivo. Aspettiamo le immagini virali sui social media! Ma l’uso caratteristico di Grosse delle pistole a spruzzo le conferisce una durezza che manca del calore o della fallibilità del tocco umano e rende difficile, almeno per me, sentirmi emotivamente toccata dall’esperienza.

In confronto entrare nell’installazione di Rooney, a cui si ritorna prima di scendere al piano inferiore, è come essere inghiottiti nel ventre di un dipinto, con annessi i succhi gastrici che scorrono. Gli arancioni e i rosa vividi e i gialli cremosi della primula si muovono nella stanza, punteggiati solo da alcuni lambi di pennellate ad olio.

C’è tutto il fascino della crescita primaverile, ma anche la gravità dell’entropia e della decadenza. In un testo poetico esposto nella sala, l’artista spiega: «Prima di iniziare a dipingere, mi piace mettere i piedi nudi su un po’ di terra. Così posso sentire la forza e l’energia di tutto ciò che accade sotto il livello del suolo». La pittura viene poi lavorata a strati, poi erosi con una levigatrice elettrica, in modo da portare alla luce i passaggi sotterranei. È come se il dipinto fosse stato spinto sull’orlo della morte per essere caricato con il flusso di una nuova vita. E non posso fare a meno di pensare: è così che continua a brillare.

Eleanor Nairne è curatrice alla Barbican Art Gallery, London

Traduzione di Mariaelena Floriani

«Splinter» (2022) di Katharina Grosse © Adagp, Parigi

Redazione GDA, 18 luglio 2022 | © Riproduzione riservata

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