Alghe giapponesi per curare Burri
La scoperta apre la strada a un approccio innovativo per intervenire su problemi comuni alla gran parte delle opere del maestro umbro e a molte altre opere d’arte contemporanea

Alberto Burri ne avrebbe probabilmente riso divertito, se avesse saputo che per restaurare una sua opera sarebbe stato scelto un estratto vegetale di funori, un’alga giapponese, il cui nome, al primo impatto, richiama più la raffinatezza della cucina asiatica che la salvaguardia di una materia artistica certamente povera, ma oggi preziosissima.
Eppure questa scelta inconsueta, frutto di un lavoro di studio e ricerca, si è rivelata la più rispettosa della complessa essenza materica di «Nero con punti» del 1958, un esemplare di grande formato della preziosa serie dei «Sacchi» composto da due superfici di tela dai lembi prominenti cuciti con una cordicella, che mostrava segni di logoramento. La scoperta apre la strada a un approccio innovativo per intervenire su problemi comuni alla gran parte delle opere del maestro umbro e a molte altre opere d’arte contemporanea.
Ne parliamo con Muriel Vervat, restauratrice d’arte antica, specializzata in pittura dal Trecento al Cinquecento, che si è messa in gioco lavorando per due anni sulle insidiose quanto appassionanti fragilità di un’arte per lei molto «giovane» in collaborazione con diversi istituti scientifici, quali l’Istituto di scienze del patrimonio culturale e l’Istituto di fisica applicata Nello Carrara, entrambi parte del Consiglio Nazionale delle Ricerca (Cnr) di Firenze.
«La sensibilità del committente, il Gruppo Unipol proprietario dell’opera, mi ha consentito di optare per un intervento conservativo non definitivo, che sarà probabilmente da ripetere tra quattro o cinque anni, ma che consentirà alla materia del supporto, cioè la fibra di juta dei sacchi alimentari americani utilizzata da Burri, di consolidarsi nella struttura, continuando tuttavia il suo naturale processo di invecchiamento, per evitare di cristallizzarla in maniera innaturale e salvaguardando perfettamente la superficie monocroma del dipinto, di un nero straordinario, mat ma riflettente la luce, ottenuto con una vernice sintetica rivoluzionaria per l’epoca, che ora è stata solo spolverata».
L’estratto d’alga, la cui applicazione è stata sostanzialmente limitata al supporto sottostante, ha, infatti, la capacità di entrare nella fibra, restituendole corpo senza alterarne i legami di natura chimica. «Si trattava di comprendere profondamente la poetica dell’autore, che proprio alla fisicità sofferta della materia ha affidato il messaggio della sua ricerca, spinto da un’urgenza espressiva e dal desiderio di sperimentare», continua la restauratrice, che evidenzia anche come l’utilizzo di prodotti green nel restauro contemporaneo abbia l’ulteriore pregio di essere rispettoso della salute di chi opera. Fino al 21 gennaio negli spazi di Cubo Unipol il restauro è presentato nella mostra «Burri Reloaded» a cura di Ilaria Bignotti.