Bard (Ao). Come spesso accade, anche a Sergio Larraín, il più grande fotografo cileno del secolo scorso, la morte (avvenuta nel 2012) ha portato una notevole fama postuma, come dimostrano le 127 immagini che compongono la grande mostra presentata nella scorsa edizione degli incontri di Arles e oggi visitabile al Forte di Bard: «Sergio Larraín. Vagabondages», a cura di Agnés Sire, fino al 9 novembre (catalogo Xavier Barral). Ma in questo caso non ci si può lamentare dell’incapacità dei critici o dei galleristi nel riconoscere un grande talento, poiché si è trattato di una vera e propria scelta di vita del fotografo, che non solo ha abbandonato la professione nel 1978, conducendo una vita all’insegna della meditazione e dell’insegnamento spirituale nella campagna cilena, ma ha anche chiesto e ottenuto, a partire dagli anni Novanta, una sorta di silenzio intorno al suo nome e alla sua opera. Nato nel 1931, Larraín era giunto in Europa negli anni Cinquanta e aveva raggiunto una certa fama nei primi anni Sessanta, quando Cartier-Bresson lo aveva voluto cooptare nell’Agenzia Magnum.
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