I dodici anni che separano le date di nascita ufficialmente riconosciute dell’Arte povera (1967) e della Transavanguardia (1979) in realtà rappresentano una frattura ben più vasta di quella meramente cronologica. Fu, infatti, quello, un periodo di radicali mutamenti politici, sociali ed economici, ma anche di una graduale trasformazione del sistema dell’arte contemporanea che, da settore di nicchia su cui ironizzava Alberto Sordi in «Le vacanze intelligenti», iniziava a diventare un fenomeno più allargato, sia sul mercato, sia nella sua diffusione in termini di popolarità e di spettacolarità, preannunciando quanto sarebbe esploso negli anni Novanta. Le due tendenze furono specchio fedele dei propri tempi: da una parte l’austerity ma anche la voglia di contestare e di sperimentare degli anni Sessanta e Settanta; dall’altra il riflusso delle ideologie e dell’impegno politico e l’affacciarsi di quello che Renzo Arbore definiva «edonismo reaganiano». Riflesso di due Italie, Arte povera e Transavanguardia sembravano riproporre l’antica disputa tra arte «di sinistra» e «di destra», ma anche, in termini più «colti», la contrapposizione, cui si è richiamato recentemente lo storico dell’arte Eduard Beaucamp, tra arte «calvinista» e «barocca», le due categorie nelle quali si inscrivono tuttora le due anime del contemporaneo: sperimentalismo impegnato contro spettacolarità, contemplazione spirituale e godimento per gli occhi. Al rifiuto della pittura e della scultura a favore dell’installazione di ascendenza concettuale e della processualità dell’opera e dei materiali (per mettere in crisi lo status dell’opera come oggetto immutabile, mercificabile e tesaurizzabile) fece seguito il ritorno a tele, pennelli e scalpelli; al rifiuto della manualità come elemento feticistico identificativo dell’individualismo dell’artista, si oppose l’esaltazione dell’artista eroe, divo e creatore; a una visione storicistica (e quindi marxistica) del divenire delle arti e delle magnifiche sorti delle avanguardie rispose l’astoricità «circolare», la libera citazione dal passato, il ritorno alle tradizioni iconografiche nazionali e persino il recupero di personalità discusse come quelle di De Chirico e Sironi. Anche le identità dei due critici che battezzarono poveristi e transavanguardisti sono agli antipodi: al freddo e «notarile» Germano Celant si oppone il vulcanico Achille Bonito Oliva, il primo critico italiano ad aver cercato nei mass media, in primis la televisione, il trampolino ideale per un prodotto sino ad allora enigmatico come l’arte contemporanea. In Italia, la riapertura della stagione è quest’anno caratterizzata da un confronto a distanza tra le due tendenze nostrane del secondo dopoguerra più note e affermate in ambito internazionale. Piaccia o meno, è pur sempre il mercato a giocare un ruolo determinante per il consolidamento di una corrente artistica. In queste pagine, dati alla mano, il confronto tra «calvinisti» e «barocchi» è affrontato alla luce dell’andamento del mercato negli ultimi dieci anni, una fase nella quale l’arte contemporanea italiana ha ottenuto un ampio riconoscimento economico su scala internazionale. Anche in questo caso emergono destini diversi: se l’Arte povera è stata protagonista di una lenta e graduale scalata del mercato, sino ai vertici attuali, la Transavanguardia esplose poco dopo la sua prima affermazione per poi stabilizzarsi a livelli più ragionevoli.