I codici di Crous e Masoumian

Alla Galleria Lara & Rino Costa le ricerche di due artisti molto diversi si incontrano svelando ciò che resta e sottostà al passaggio dell’uomo

Dettaglio dell’opera «Cenae 6. Vent des Foretes» (2010) di  Joan Crous
Monica Trigona |  | Valenza

Le vetrate esterne della galleria di Valenza fanno intravedere un allestimento che non può che attirare la curiosità anche del passante più distratto. Senza entrare nello spazio si può esplorare un intero percorso espositivo lasciandosi guidare da un occhio indagatore che dalla prima sala si spinge alla seconda grazie ad un’area «tutta a vista».

Si potrebbe dire che una scelta di fruizione è stata appena compiuta e se non si fosse troppo curiosi e assetati di cogliere dettagli e motivi in filigrana di ogni singolo pezzo in mostra, la suggestione generale si è probabilmente già colta nell’ammirare a distanza una grande installazione di antichi reperti pompeiani (?) prima e di affascinati plastiche, piccoli microcosmi tra visioni inconsce e realtà, dopo.

Nel caso in cui si opti per una classica visita alll’interno, magari proprio il giorno dell’inaugurazione (in cui oltre ai molti estimatori è sorprendente la presenza di tutti gli artisti nel roster della galleria), si scopre che una tavola apparecchiata a grandezza reale, che sembra una testimonianza archeologica di un banchetto romano, l’ha realizzata il catalano Joan Crous.

Di quest’ultimo erano le sei opere per la biennale promossa dall’Associazione Amici della Fondazione Hospice presentate durante la scorsa edizione di Arte Fiera a Bologna. Molto apprezzati già allora, gli interventi di Crous in questa sede comprendono due tavoli, di cui uno più grande, e dei materici quadri a muro.

L’autore, che dal 1996 porta avanti il «Progetto Cenae», sottopone complessi assemblage a procedimenti che, dall’insabbiatura sino alla cottura in forno di vivande, consumano il materiale organico e sgretolano e antichizzano la restante mise en place di vetro. Gli ossidi utilizzati conferiscono al risultato finale tonalità che dalle più carnali e terrose vanno al blu cobalto come a riferire di epoche e situazioni disparate.

Toccare le ruvide e fragili superfici è un’esperienza che restituisce un senso di transitorietà quanto di fugacità temporale meravigliosamente apparecchiato dalle mani dell’uomo. La stanza attigua è dedicata alla ricerca dell’iraniana Saba Masoumian. Con alle spalle diverse personali a Tehran e Dubai, e numerose collettive in Italia, l’artista è conosciuta per il suo particolare linguaggio allegorico ed allusivo.
«Senza titolo» (2021) di Saba Masoumian
Eclettici edifici dismessi, sculture dai connotati femminili «corrotte» da misteriosi elementi organici, viscere in cui il mondo vegetale e quello animale si intrecciano come a ribadire una medesima origine fanno parte di un immaginario che riempie le teche esposte di interrogativi e narrazioni all’infinito.

Le tracce del passaggio umano si avvertono in arredi, decorazioni e meccanismi atti al funzionamento ottimale di mondi congelati in preziose sculture dove gli oggetti pare abbiano acquistato una nuova ed autonoma vita. La sensazione è di trovarsi davanti a opere che travalicano storie e tradizioni nazionali a favore di contenuti aperti e fluidi, nutriti soprattutto da una forte componente psicologica e soggettiva.

Pur nella loro diversità, l’incontro tra Joan Crous e Saba Masoumian genera un sentore comune circa la caducità delle cose che, in modo diverso, sono «siglate» dall’inevitabile passare del tempo e da contaminazioni della natura circostante. La mostra è visitabile sino al 16 luglio.

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