Al Mast la ricerca sull’immagine di industria e lavoro

I cinque progetti per il Mast Photography Grant, originali e inediti, si relazionano con le opere dei finalisti delle precedenti edizioni del concorso

«Untitled (Cart)» (2022), di Hicham Gardaf
Rischa Paterlini |  | Bologna

Dopo aver camminato su una rampa pedonale, ponte metaforico tra l’impresa e l’area cittadina circostante, il visitatore approda all’interno dell’edificio, sede della Fondazione Mast: una sorta di micro-città dedicata alle arti dove i progetti originali e inediti dei cinque finalisti del concorso fotografico Mast Photography Grant on Industry and Work, nato nel 2007 per sostenere la ricerca sull’immagine dell’industria e del lavoro e dare voce ai talenti emergenti, si susseguono in diversi livelli, relazionandosi con le opere dei finalisti delle precedenti edizioni, come  a formare un giro del mondo per immagini.

Farah Al Qasimi, Hicham Gardaf, Lebohang Kganye, Maria Mavropoulou e Salvatore Vitale narrano «la convivenza tra cultura occidentale e cultura araba in un centro urbano industriale degli Stati Uniti (Al Qasimi); la sopravvivenza di un mestiere antico, il venditore ambulante, nella frenesia di una grande città come Tangeri (Gardaf); l’evocazione tra fantasia e realtà di una professione perduta (Kganye); le possibilità creative che sembrano rivendicare i nuovi software di Intelligenza Artificiale (Mavropoulou) e lo sfruttamento – e l’immaginaria rivolta – dei lavoratori della gig economy, (Vitale)», scrive nell’introduzione al catalogo la Presidente Isabella Seràgnoli.

Ad aggiudicarsi il premio è la pellicola in 16mm di Hicham Gardaf (Tangeri, 1989). Ci racconta il curatore, «Il lavoro di Hicham Gardaf sulla poetica del silenzio parla, tra l'altro, della distruzione di un habitat da parte della crescita selvaggia delle città nel tardo capitalismo, soprattutto nell'epoca del denaro a buon mercato dopo la crisi del 2008. Da allora si costruisce all'impazzata, si distruggono vecchi habitat, si creano tessuti urbani determinati quasi esclusivamente dal principio della massimizzazione del profitto. Il meraviglioso film poetico di Gardaf è un lamento su questo rapido cambiamento e sul mutamento della percezione dello spazio e del tempo, sulla scomparsa delle tradizioni».

È interessante notare poi come tra le diverse opere esposte vi sia quella di Maria Mavropoulou «In their own image, in the image of God they created them» che si  avvale dell‘utilizzo dell’intelligenza artificiale e che ci porta a riflettere sul fatto di quanto possa essere importante che la fotografia dia spazio alle nuove tecnologie per discutere i cambiamenti della società.

«Mi piace questa riflessione, racconta Urs Stahel, perché appare un po' romantica e perché suggerisce che noi, o le fotografie, abbiamo una scelta. Purtroppo però, ho il sospetto che non abbiamo alcuna opzione, che dobbiamo affrontare lo sviluppo dell'intelligenza artificiale, anche e soprattutto nel contesto della produzione di immagini. Basti pensare alla pressione esercitata dal fatto che i redattori dei media utilizzeranno sicuramente presto, per illustrare le loro notizie, immagini non più scattate da un fotografo sul posto, ma prodotte con l'aiuto di Dall-E 2 e di altri programmi sul computer della redazione.

Da un lato, questo solleva la questione se l'intelligenza artificiale possa produrre arte di valore, dall’altro sollecita una seria riflessione  su quanto possiamo ancora fidarci o credere alla fotografia documentaria, cioè se essa sarà ancora in grado di fornire una qualche prova. In altre parole: sì, ero lì e ai miei occhi la situazione si è presentata così. Questo tipo di prova visiva è minata in modo molto più radicale dall'uso dell'intelligenza artificiale di quanto qualsiasi dubbio filosofico sull'immagine sia mai stato in grado di fare».

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