La legge non è uguale per tutti

Due sentenze inglesi fanno molto discutere perché hanno attribuito responsabilità totalmente divergenti agli accertamenti preliminari di venditori specializzati nei dipinti e nell’arte orientale

«La Bénédicité» (1744) di Jean-Baptiste-Siméon Chardin (particolare)
Gloria Gatti |

Oggi che i tempi delle «gite in calesse» sono finiti, mi duole dirvi, invece, che il mestiere dell’«occhio» è diventato estremamente insidioso, come ci dimostrano i due recenti e distonici casi decisi dalla High Court di Londra che hanno portato alla sbarra le gallerie capitanate da John Eskenazi (Qatar Investment & Projects Development Holding Co v John Eskenazi Ltd [2022] EWHC 3023 [Comm]) e Samuel Dickinson (Countess of Wemyss and March & Anor v Simon C. Dickinson Ltd [2022] EWHC 3091 [Ch]) legati da un filo che li accomuna per essere entrambi finissimi connaisseur e grandi mercanti.

A Dickinson era stata contestata, dalla contessa di Wemyss, la violazione del dovere di diligenza e di quelli fiduciari, come agente, per aver venduto, «Le Bénédicité» come dipinto di «Chardin e studio», per soli 1,15 milioni di sterline, in quanto archiviato da Pierre Rosenberg nel catalogue raisonné di Jean-Baptiste-Siméon Chardin (1699-1779), con una «red flag» e descritto come una «copie retouchée», ossia una copia della prima versione conservata al Louvre realizzata da allievi e a cui il maestro aveva aggiunto solo qualche tocco personale.

Dickinson era stato accusato di negligenza perché non lo aveva identificato come autografo e lo aveva venduto a un altro mercante, la galleria Ammels di Stoccolma, la quale, dopo una «pulizia profonda», aveva scoperto una firma sul volto di una delle effigiate e lo aveva, a sua volta, rivenduto, sei mesi, dopo, come una «grande riscoperta» e un originale di Chardin, al grande collezionista e banchiere francese Michel David-Weill, presidente della banca privata Lazard, per 10 milioni di dollari.

La Corte ha ben chiarito che i doveri di diligenza dovuti da Dickinson avrebbero dovuto essere regolati dai termini del contratto tra loro e i Wemyss, purtroppo perduto, e premesso che «il dovere fondamentale del signor Dickinson per quanto riguarda la sua valutazione del dipinto era di essere all’altezza di un normale esperto che esercita e professa di possedere la speciale abilità che dichiara di avere», ma dato che l’opinione di Dickinson coincideva con quella di Rosenberg, «l’indiscussa autorità vivente su Chardin», non era ravvisabile alcuna sua negligenza.

L’opinione di John Eskenazi, massima autorità dell’arte del Sud-est asiatico, invece, non è stata ritenuta sufficiente quando l’esperto dealer è stato convenuto in giudizio da Hamad Bin Abdullah Al Thani, sceicco del Qatar e collezionista compulsivo, per avergli venduto sette oggetti di arte orientale che sarebbero non autentici a un prezzo di circa 5 milioni di dollari. Le vendite allo sceicco, com’era prassi per le antichità vendute a privati, erano avvenute sulla fiducia, senza riserve, tramite accordi verbali, e le fatture che riportavano una sintetica descrizione dell’oggetto e la dichiarazione di rito dell’opinione del venditore che «sulla base delle sue conoscenze, riteneva che l’oggetto descritto in fattura fosse antico e quindi avesse oltre i cento anni di età».

I rapporti tra le parti si erano incrinati in seguito alla domanda di prestito allo sceicco per un’esposizione dei manufatti da parte di un museo e delle conseguenti richieste di documentazione secondo gli standard del settore. Nell’affrontare la questione, la Corte ha osservato che i precedenti giurisprudenziali relativi agli standard di diligenza richiesti agli esperti riguardavano principalmente i dipinti, ma fornivano un «quadro utile» anche per affrontare le questioni delle antichità, assimilabili a casi di «misattribution».

La Corte, tuttavia, ha espresso un tanto interessante quanto pericoloso distinguo in tema di autenticità, affermando che per quanto concerne i dipinti, l’«occhio» dell’esperto ha un peso significativo, ma quando si tratta di antichità, né l’occhio, né l’esperienza, né una reputazione immacolata hanno alcun peso, se non sono supportati da documentazione sulla «provenance», sulla legale esportazione, dal parere di altri esperti e dall’esame dei materiali, nonché per «pezzi di qualità museale di livello mondiale, un’adeguata ricerca scientifica». Ha aggiunto che «per un operatore professionale del mercato antiquario, tuttavia, non era sufficiente affermare le proprie credenziali e fidarsi del proprio istinto. Un processo corretto prevede l’acquisto da una fonte affidabile, l’esecuzione di tutte le ricerche scientifiche e storico artistiche necessarie e l’esame della storia del pezzo. Inoltre, si dovrebbero adottare misure per garantire che l’opera non sia stata rubata o esportata illegalmente».

Entrambe le sentenze non sono esenti da critiche per la loro inaccettabile distonia. Delle opere d’arte indiane, gandhariane, himalayane e del Sud-est asiatico, purtroppo non c’è un catalogue raisonné e neppure un’«indiscussa autorità vivente»; pretendere, poi, una continuità nelle provenienze per le antichità equivarrebbe a dichiararle invendibili e a relegarle all’oblio. Non si comprende, inoltre, perché l’occhio dell’esperto debba avere un peso nell’arte pittorica ma non nel mercato antiquario. Anche Samuel Dickinson avrebbe potuto (o dovuto?) fare verifiche più approfondite e scientifiche sul dipinto, magari anche molto meno onerose di quelle pretese da Eskenazi, per individuare la firma celata nel volto e stabilire l’autografia.

Dunque, nell’attesa che l’Alta Corte inglese si metta d’accordo con sé stessa, e decida se gli «occhi» debbano chiudersi per sempre, vi ricordiamo che cosa ha scritto a proposito dei doveri di diligenza di Dickinson il giudice Gleeson, e Voltaire prima di lui: «Ci vogliono notai, diceva, e preti, testimoni, contratti e dispense». L’ingenuo gli rispose con la riflessione che i selvaggi hanno sempre fatto: «Siete dunque gente parecchio disonesta se volete tante precauzioni».

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