Claudio Abate, ritrattista degli artisti

Le sue fotografie hanno immortalato i protagonisti della scena artistica della seconda metà del Novecento

«Jannis Kounellis» (1988), di Claudio Abate. © Archivio Claudio Abate
Guglielmo Gigliotti |  | Roma

Dal 3 marzo al 4 giugno la mostra al MaXXI «Claudio Abate. Superficie sensibile», curata da Bartolomeo Pietromarchi e Ilaria Bernardi, dispiega la parabola di uno dei testimoni più sensibili dell’arte contemporanea italiana dagli anni Cinquanta ai primi decenni del 2000. Oltre 200 fotografie, suddivise in 11 sezioni tematiche, presentano immagini pregnanti di mostre, opere, artisti, molte delle quali fondamentali per la ricostruzione storica di un evento o di un periodo, perché capaci di restituire anche l’atmosfera culturale del tempo.

Sapremmo meno di Pino Pascali, di Kounellis, o di De Dominicis, se l’occhio vigile di Claudio Abate, mediato dalla macchina fotografica, non avesse immortalato loro momenti e opere, come negli scatti in mostra. Le foto della performance «12 cavalli vivi» di Kounellis nel 1969 alla galleria L’Attico colgono, per esempio, anche il clima di una stagione che stava rivoluzionando le concezioni dell’arte.

Lo stesso vale per le tante fotografie realizzate durante le mostre alla Galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani negli anni Sessanta e Settanta, quelle di Cy Twombly presso la Galleria Gian Enzo Sperone e Konrad Fischer, o le opere immortalate negli studi degli artisti della Scuola di San Lorenzo, da Ceccobelli a Tirelli, Nunzio, Pizzi Cannella e Dessì. Abate era artista tra gli artisti, compagno delle stesse avventure, e una sezione della mostra al MaXXI riporta le opere fotografiche autonomamente realizzate per sé.

Nato a Roma nel 1943 (e morto nel 2017), Claudio Abate, solo sedicenne, andò a fotografare Schifano e le sue opere. E poi, pochi mesi dopo, Carmelo Bene e il suo teatro. Parallelamente lavorava a reportage per vari giornali, ma era l’arte che gli fungeva da specchio.

Venne chiamato da Beuys, come poi da Lüpertz e Penck, da gallerie come Volume! e istituzioni come l’Accademia di Francia a Villa Medici, ma la sua bravura si esprimeva soprattutto nelle performance e negli happening, che prendevano corpo in spazi deputati e non, come quelle di «Arte povera più azioni povere ad Amalfi» del 1968, apoteosi dell’Arte povera.

A curare la mostra fu Germano Celant, che, poco prima di morire nel 2020, stava lavorando, assieme a Ilaria Bernardi, proprio a una monografia su Claudio Abate: sarà presentata al MaXXI, contestualmente alla mostra.

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