Thiebaud, o la desiderabile malinconia di una torta

A poco più di un anno dalla scomparsa, e a 102 dalla nascita, la Fondation Beyeler dedica al pittore americano un’ampia retrospettiva

«Bakery Case» (1996) di Wayne Thiebaud, Wassenaar (Paesi Bassi), Museum Voorlinden. © Wayne Thiebaud Foundation / 2022, ProLitteris, Zurigo. Foto Antoine van Kaam
Franco Fanelli |  | Basilea

«L’ironia della sorte è che le mie torte dipinte sono davvero orribili. Troppa meringa finta, troppa glassa. Gli americani sono incredibilmente volgari nelle loro torte e nei loro dolci. È buffo che la gente le consideri belle». Però la pur discutibile pasticceria statunitense è parte dell’immagine del sempiterno American Dream che si è costruito chi americano non è. Come la Coca-Cola e la sua bottiglietta (serigrafata da Warhol) o l’hamburger (riprodotto da Oldenburg nell’afflosciato iperrealismo della gommapiuma).

Nonostante stiamo parlando di alimenti non esattamente raccomandabili a chi ha problemi con la glicemia e il colesterolo, è anche la loro estetica a renderli desiderabili, sia pure con un importante distinguo: a nessuno verrebbe in mente di dare un morso a un hamburger di Oldenburg; la cremosità della pittura a olio sapientemente spalmata da Thiebaud sulle sue tele ha qualcosa di sensualmente invitante.

A poco più di un anno dalla scomparsa, e a 102 dalla nascita, del pittore originario dell’Arizona ma che a un solo anno di età si trasferì con la famiglia a Long Beach in California, la Fondation Beyeler gli dedica dal 29 gennaio al 21 maggio un’ampia retrospettiva. Sebbene le rainbow cake, le cheese cake, i donut, e le infinite varietà di pie, si prestino magnificamente alla riproduzione fotografica su poster e t-shirt, la visione dal vero consentirà al visitatore di capire perché Thiebaud sia solo parzialmente ascrivibile alla Pop art, ma soprattutto di quanta eccellente pittura si nutrano questi ipernutrienti soggetti.

Soutine e la sapienza con cui rivisitò il bue squartato di Rembrandt era il suo eroe. Amava le tutt’altro che opulente nature morte di Zurbarán; sapeva bene che la «Brioche» di Chardin era un modello inarrivabile. Considerava De Kooning come il suo primo, vero maestro: «Aveva una conoscenza immensa e concentrata della pittura. Come ogni artista ammirevole, mi sembrava che lavorasse prima di tutto sulla forma, con un vocabolario immenso». Lo affascinava perché l’olandese De Kooning aveva portato con sé parte del patrimonio pittorico europeo; e poi, come lui (che in gioventù aveva lavorato per la Disney) aveva fatto gavetta in quei settori in cui il «saper fare» è fondamentale, come la pittura commerciale o la decorazione d’interni per i grandi magazzini.

Lo incontrò nel 1956 in un viaggio a New York, occasione per conoscere anche Franz Kline e forse ne rimane qualcosa nei «tagli» vertiginosi, nelle prospettive abissali delle vedute di San Francisco, pure incluse nell’attuale mostra. Ci sono le figure, i ritratti (modella ricorrente la moglie Betty Jean, che lo lasciò solo nel 2015, ad appena 56 anni). Si tornerà a fare paragoni con Hopper, perché la malinconia e la nostalgia sono ingredienti necessari del desiderio.

Diceva infatti: «La cosa meravigliosa degli oggetti comuni, di qualsiasi tipo, è esattamente ciò di cui parlano i poeti. Parlano di un potenziale trascendente, del fatto che possono essere più di quello che sono. Per esempio, diciamo un gruppo di oggetti da cucina come Chardin: pentole di rame e di argilla, una pagnotta di pane. Il tuo compito come pittore è quello di renderli abbastanza diversi e speciali da far sì che, quando torni a guardare gli oggetti della cucina, essi sembrino desiderabili». Se poi stanno dietro a una vetrina nell’America della Grande Depressione («è incredibile, in quel periodo, quanto fossero belli gli allestimenti per attirare le persone») o solitari e prigionieri («Caged Pie» del 1962, è una delle sue opere più struggenti e minimaliste) lo sono ancora di più.

Lo si è accostato, anche in una mostra del 2011, a Morandi, nel museo intitolato al pittore bolognese. Ma parlare di vanitas a proposito delle bottiglie del solitario di via Fondazza è improprio; non lo è per Thiebaud quando dipinge cremosi rossetti, con l’aggiunta decisiva, però, della perversa tentazione al morderne qualcuno che essi ispirano. Questo in Morandi non c’era. C’era molto altro, forse molto di più. Ma i quadri di Thiebaud, scrisse nel 2016 il critico Ed Schad, «sembrano contenere tutti i suoi giorni tristi e felici insieme. C’è una magia, un allineamento vecchio stile tra arte e vita che è difficile da descrivere».

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