Il meglio e il peggio 2022, anno trentanovesimo

Doveva essere l’anno dei «campionati mondiali del contemporaneo» e invece la mostra di Donatello e il restauro dell’Assunta di Tiziano sono tra i più votati. In tempi incerti si punta sul classico: promossi Paolini e Kiefer, bocciati Banksy e Hirst, mentre, come al solito, il neoministro non piace a prescindere

Anselm Kiefer a lavoro su una delle opere esposta nel Palazzo Ducale di Venezia © Georges Poncet
Franco Fanelli |

Negli stessi giorni in cui Palazzo Strozzi ospitava una delle due sezioni di una straordinaria mostra di Donatello, al piano inferiore e nel cortile i visitatori potevano accedere a un’altra esposizione, dedicata alle fantasmagorie di Nft e derivati. Così un artista che mezzo millennio fa dominava tutte le tecniche e i materiali della sua disciplina (legno, marmo, bronzo) si trovava come coinquilini Refik Anadol, Anyma, Daniel Arsham, Beeple, Krista Kim e Andrés Reisinger.

Colleghi di oggi che della tangibilità della materia non sanno più che farsene, avendo optato per le liquide fluorescenze digitali. La giuria chiamata a compilare per «Il Giornale dell’Arte» il pagellone dell’anno 2022 assegna senza indugi la vittoria per Ko (non solo tecnico) all’artista rinascimentale che restituì a Gesù Cristo la diretta discendenza da un falegname nazareno e quell’umanità che Masaccio, nello stesso periodo, riconosceva tanto nei santi quanto nei peccatori, riportandoli con i piedi per terra.

Tra l’altro, il restauro (in corso) della Cappella Brancacci, teatro del confronto tra Masaccio e Masolino, è tra i promossi dell’anno, ma un voto ancora più alto lo prende quello dell’«Assunta» di Tiziano ai Frari, uno dei must di quello straordinario oratore che era Jannis Kounellis quando voleva sottolineare in quella Vergine stagliata in un cielo vero, nella «donna realmente incarnata» (usava queste parole), l’abisso che separa l’arte moderna da quella bizantina.

Donatello, si diceva. È lui l’uomo dell’anno; è l’oro che resiste a ogni tipo di criptovaluta, a ogni bizantinismo finanziario, è la concretezza e il genio cui conviene affidarsi nei momenti bui. Ci aspettavamo che i nostri giurati prestassero più attenzione a un altro match, quello tra Biennale di Venezia e documenta di Kassel, nell’anno in cui la flessione della pandemia ha riportato in scena le grandi mostre, il pubblico e le fiere d’arte contemporanea. La cassa di risonanza offerta dalle polemiche sui presunti contenuti antisemiti (o semplicemente anti israeliani?) di alcune opere a Kassel ha forse fatto passare in sordina altri aspetti della quinquennale rassegna, bocciata dagli storici dell’arte Giovanni Iovane, Claudio Spadoni e da Guido Wannenes, patron dell’omonima casa d’aste.

Quanto alla Biennale più femminile e onirica di sempre, non ha suscitato grandi reazioni, se non qualche delusione. Documenta, mai come questa volta, si è posta come «antimostra», nel significato tradizionalmente attribuito a un’esposizione d’arte visiva, contrapponendosi anche in questo alla mostra più mostra di tutte, la Biennale di Venezia, ma nessuno si è emozionato per questo. Forse perché sono due facce della stessa medaglia (o, come dice Michael Corleone, le due facce della stessa ipocrisia) vicendevolmente necessarie. Tra una presunta non-mostra anti-mercato e una mostra che fa di tutto per non dare troppa rilevanza alle gallerie che prestano le opere, vince sempre e comunque il mercato dichiarato come tale nella sua forma più spettacolare.

Il 2022 è stato l’anno in cui la superpotenza Art Basel ha fagocitato la Fiac, una fiera storica, forse l’ultima superstite della Parigi capitale dell’arte moderna. Se ne rattrista Andrea Sirio Ortolani, eletto lo scorso anno a capo dell’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte moderna e contemporanea, non a caso figlio d’arte. E mentre un gallerista di lungo corso come Renato Cardi segnala il persistere della sovrappopolazione fieristica in Italia, il mondo va verso un monopolio o quasi, e Art Basel rafforza un impero ai cui vertici siede un italiano segnalato tra i promossi in queste pagine, Vincenzo de Bellis, un top player che più di altri incarna quel ruolo sempre più ibrido e multitasking e sempre meno legato al pensiero critico (a beneficio della prassi organizzativa) che è il curatore. Ve lo sareste visto un Marco Vallora, la cui recente scomparsa è più volte ricordata in queste pagine, sacrificare la scrittura al corteggiamento di un gallerista, o al comando di una multinazionale del mercato dell’arte?

A dire la verità ricordiamo edizioni de «Il meglio e il peggio» ben più combattute e feroci. Questo, invece, è un confronto da tempo di guerra, in un clima da coprifuoco in cui i sussurri prevalgono sulle grida. Più che nemici, si cercano, più o meno spudoratamente, benevolenze o si rafforzano alleanze. Anche le scelte sono di retrovia. Anselm Kiefer, ad esempio, è l’artista vivente più votato tra i migliori dell’anno. Fa pittura di storia, ha riesplorato quella della Serenissima rinverdendo se non i fasti almeno la tradizione dei teleri, sicuramente la sua mostra a Palazzo Ducale durante la Biennale sarà piaciuta anche ai non contemporaneisti che ogni tanto indulgono nella pericolosa tentazione di addentrarsi in territori poco familiari (come Salvatore Settis, promosso dai nostri giurati, o lo psicanalista bestseller Massimo Recalcati).

Ma oggi è un artista che ha perso o deposto da tempo ciò che nei tempi d’oro gli conferiva fascino, quel sottile afrore di ambiguità, quella del pittore tedesco che erigeva mausolei all’artista ignoto in forma di bunker, o che indugiava metaforicamente fra i tronchi della selva di Teutoburgo alla ricerca dello spirito di Arminio, il barbaro che sconfisse i romani invasori e primo eroe nazionale della Germania. Banksy, invece, ha stufato, nonostante le sue (?) ultime imprese tra le macerie dell’Ucraina. Hirst e Cattelan, come da tradizione, finiscono tra i cattivi.

Li accompagna Ai Weiwei, pochi anni fa amatissimo, ma ora surclassato da un altro artista che medita sul tempo e sulla storia (in termini molto meno didascalici rispetto a Kiefer) come Giulio Paolini, insignito del Praemium Imperiale. Rarissimamente un ministro per i Beni culturali ha ottenuto in questa rubrica una promozione, quand’anche risicata.

Dario Franceschini, in questi anni, se l’è cavata, ma ora tocca a Gennaro Sangiuliano e dubitiamo che, nonostante nome (per assonanza) e cognome rimandino a poteri ultraterreni, saprà fare miracoli nel Dicastero non a caso tra i meno ambiti. Per ora gli tocca la bocciatura «a prescindere», il brutto voto in effigie, prima ancora di avere iniziato il compito in classe. Si dice che i santi cattolici siano i successori degli dèi pagani e certo il ritrovamento dei bronzi antichi di San Casciano, da molti salutato come la lieta novella dell’anno, a pochi giorni dalla sua nomina, è una coincidenza inquietante e, se non un miracolo, una discreta botta di c... mediatica.

Ma questo è il Paese in cui l’archeologia viene troppo spesso utilizzata dai politici come fondale per set nazionalpopolari, al pari dell’arte antica. Però quando c’è da investire per tutela e mostre di sostanza scientifica, o per la formazione e l’impiego di personale specializzato si tende a glissare. La decorticazione della «Natività» di Piero della Francesca (qui opportunamente stigmatizzata) ad opera dei restauratori della «perfida Albione» sarà così un ottimo diversivo per chi dimentica che gli antiquari sono anche operatori culturali (del resto l’antiquariato non è più di moda) o, tanto per citare un sito, lascia impunemente al suo destino la necropoli romana di Porto presso Ostia Antica, meraviglia e degrado a cielo aperto.

(La versione integrale con tutti i voti dei nostri intervistati è disponibile nella versione su carta)

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