Per cambiare (e collezionare) ci vuole coraggio

Intorno ad Artissima, a Flashback e alle altre fiere un corollario di mostre mai visto nella settimana dell’arte a Torino; sulle vendite pesa l’incognita della crisi economica

Una veduta della Pinacoteca Agnelli con l’installazione di Sylvie Fleury. Foto Andrea Guermani © Pinacoteca Agnelli
Franco Fanelli |  | Torino

La settimana dell’arte a Torino è iniziata… una settimana prima, con il successo di una rassegna dedicata a un’arte minore (si fa per dire, vista l’economia di settore) come quella dolciaria. Il centro cittadino letteralmente bloccato dalle migliaia di persone che, complice l’anomalia di un clima estivo, hanno reso le loro passeggiate nel ponte di Ognissanti ancora più piacevoli data la concomitanza con Cioccolatò sotto le Luci d’artista già accese, è stata la conferma della voglia di uscire, vedere, gustare, ritrovarsi nel primo autunno successivo a quella che, così ci dicono, è stata la fase più dura del Covid-19. Ma c’era coda, anche nel weekend precedente, all’ingresso di Camera, il Centro Italiano per la Fotografia, che ha puntato su Robert Doisneau, ovvero su un successo garantito.

Queste le premesse, sia pure di ordine «generalista» e «antropologico», alla vera e propria settimana dell’arte, cioè l’insieme di mostre in sedi pubbliche e private che fioriscono intorno alle due fiere maggiori, Artissima e Flashback, all’ormai consolidata The Others e a Paratissima. La città, il Comune, le Fondazioni, le gallerie private hanno intercettato l’entusiasmo di una ritrovata (e speriamo durevole) normalità con un’offerta che tramuta l’autunno torinese nel coronamento di un anno in cui l’arte contemporanea  è stata la grande protagonista, con la concomitanza tra Biennale di Venezia, documenta a Kassel e Basilea; a settembre è stato il turno della Biennale di Istanbul; a ottobre ciò che era la Fiac ha celebrato la sua prima edizione sotto il marchio Art Basel.

Mai, infatti, Artissima, giunta alla sua 28ma edizione, Flashback (nata nel 2013) e The Others (2011) si sono svolte in un corollario di mostre paragonabile a quello che attende ora il visitatore. Ne dà conto, nel dettaglio, «Vedere a Torino», il tradizionale inserto dell’edizione cartacea di «Il Giornale dell’Arte» ed è impressionante, oltre alla quantità (più di trenta mostre soltanto a Torino), la qualità della proposta.

Qualche nome in ordine sparso: Michal Rovner alla Fondazione Mario e Marisa Merz; Arthur Jafa, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2019, alle OGR (spazio finanziato dalle Fondazione CRT per l’arte); Simon Starling e Sylvie Fleury alla Pinacoteca Agnelli (la direzione passata a Sarah Cosulich sta dando i suoi risultati); Chiara Camoni, una delle giovani artiste italiane di punta, e il collettivo Atelier dell’Errore alla Gam (oltre a una doverosa valorizzazione delle straordinarie collezioni ottocentesche del Museo); il trittico Diana Policarpo (vincitrice lo scorso anno ad Artissima del Premio Illy Present Future), Victor Man, pittore rumeno, e Lawrence Abu Hamdan, con una ricerca alla confluenza tra arte, scienza e tecnologia, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo; una megastar tra gli artisti-fotografi come Gregory Crewdson alle Gallerie d’Italia (una delle sedi museali della Fondazione Compagnia di San Paolo); un altro Leone d’Oro (nel 2005 come miglior giovane artista), la guatemalteca Regina José Galindo al PAV. Senza dimenticare che il Castello di Rivoli attende i visitatori per un’escursione fuori porta con una personale di Olafur Eliasson, mentre la Reggia di Venaria ospita Marinella Senatore e le sculture di Tony Cragg e il Castello di Miradolo propone la prima mostra italiana di Christo e Jean-Claude dopo la morte dell’artista.

A tutto ciò va aggiunto in contributo delle gallerie private, con, fra gli altri, Henrik Olesen da Franco Noero, Fatma Bucak da Peola Simondi, Salvo da Norma Mangione, Per Barclay da Persano, Emil Lukas da Photo & Contemporary, Thomas Schütte da Tucci Russo. Tre nuove Luci d’artista arricchiscono il «museo luminoso all’aperto» iniziato da un’idea di Fiorenzo Alfieri, allora assessore alla Cultura del Comune, nel 1998: sono quelle di Giorgio Griffa ai Giardini Cavour, di Grazia Toderi sulla cupola della Basilica Mauriziana in via Milano e di Renato Leotta sul tetto dell’Ospedale Ostetrico Ginecologico Sant’Anna.

Si direbbe un’esplosione d’arte, se la metafora, in questi tempi, non suonasse quanto meno infelice. Sicuramente un atto di coraggio da parte di tutte le istituzioni e di tutti gli spazi privati coinvolti, o meglio una risposta in controtendenza rispetto a una fase storica ed economica che sembrerebbe lasciare poco spazio e tempo alla fiducia e alla speranza di reperire nell’arte quella «Transformative Experience», tema scelto per Artissima dal suo nuovo direttore Luigi Fassi «che apre nuovi orizzonti ai nostri sensi, ai nostri pensieri e alle nostre emozioni, sino a poterci cambiare in profondità come persone».

E le occasioni in tal senso non mancano: in chiave di meraviglia tecnologica e immersiva con Eliasson, ad esempio; di analisi sociale con Jafa, politica con Rovner, ambientale con Bucak e Galindo. Ma se è vero, come sostiene la filosofa americana Laurie Anne Paul «che le esperienze personalmente trasformative sono quelle che non possiamo in alcun modo anticipare o prefigurare razionalmente, perché nulla può sostituirne il vivo manifestarsi come rivelazione di un territorio a noi ancora sconosciuto», non va dimenticato che il «coraggio» alla base dell’immenso sforzo culturale ed economico di questa settimana dell’arte torinese ha come scenario una città in profonda crisi economica, dove anche il centro storico offre una spettrale sfilata di negozi chiusi; una città-mangiatoia (con tutto il rispetto, sia chiaro, per chi punta con non meno coraggio sulla gastronomia di qualità) sempre più gremita di locali non sempre di primissimo ordine e sempre più povera di una vita commerciale oltre il cibo e i gadget.

Ben venga allora l’esperienza sperabilmente trasformativa dell’arte, anche se per rendere l’esperienza un po’ più agevole, considerate le distanze tra le varie sedi, sarebbe auspicabile un maggior coordinamento tra i «portatori» di quell’esperienza. Ma soprattutto non dimentichiamo che tutto ciò si svolge intorno a tre manifestazioni il cui fine è commerciale. Lo scorso anno Artissima fu, anche in questo senso, un successo quasi insperato. Allo stesso modo, il carattere sempre più marcatamente moderno dell’abbraccio tra ‘900, Ottocento e arte antica al centro dell’offerta di Flashback ha continuato a dare i suoi frutti, come la tenacia di The Others nel concedere fiducia agli spazi indipendenti. Quest’anno il precedente fieristico più immediato in Italia è Art Verona e i risultati non pare siano stati esaltanti («però, ci diceva un gallerista, quando uscivi dalla fiera vedevi una città normale, con negozi normali e attivi, e non solo bar e ristoranti»).

Art Basel, sia nella casa madre sia a Parigi, ha registrato vendite eccellenti, ma in quella fascia altissima di quotazioni totalmente estranea ad Artissima e a Flashback, dove nessun gallerista sarebbe così folle da proporre Gorky, Joan Mitchell o un ragno gigante di Louise Bourgeois, e neanche Giacometti, Condo o Roni Horn, non foss’altro perché, parlando di Artissima, si tratta di una fiera vincente perché mirata all’arte giovane o ad artisti storicizzati di nicchia, e sviluppatasi, non a caso, in una fase in cui quel tipo di arte ha raggiunto una popolarità andata di pari passo con il collezionismo in cerca di scoperte e di attualità.

In quale misura l’attuale crisi economica, nata con il Covid-19 e acuitasi con la guerra in Ucraina, ha colpito quella fascia di collezionisti? L’appassionato che riservava all’acquisto di giovane e abbordabile arte contemporanea parte del ricavato dalle cedole degli investimenti finanziari, risponderà «presente» nonostante una borsa che registra perdite anche del 30% sul mercato azionario? Il piccolo acquirente che vede i suoi risparmi erosi dalla crisi e dall’inflazione sarà ancora disposto a spendere 3mila euro per l’opera su carta di un giovane artista? Le gallerie più importanti anche quest’anno hanno confermato la loro fiducia alla fiera dell’Oval, la più contemporanea e la più internazionale in Italia; una quarantina vi partecipa per la prima volta.

Immutata anche la fiducia a Ginevra Pucci e Stefania Poddighe, inventrici e direttrici di Flashback. E tutto lascia pensare che il pubblico risponderà con entusiasmo, confidando, beninteso, che sia pubblico non solo torinese, se si vuole tornare alle cifre dell’indotto creato nel 2020, calcolato intorno ai 4 milioni di euro. Il menu offerto dalle mostre in città e dintorni è tale da mettere appetito a chiunque abbia una minima attenzione per l’arte di oggi e del passato (non dimentichiamo le mostre sul «Rinascimento privato» alla Fondazione Accorsi Ometto, su Constable alla Reggia di Venaria, il Neoclassicismo alla Pinacoteca Albertina, il già citato focus sull’Ottocento alla Gam). Con la speranza che a restare a bocca asciutta o quasi non restino proprio i galleristi e gli antiquari espositori, perché in tal caso non basterebbe il miglior cioccolato a rimetterli di buon umore.

L’occhio sulla Torino Art Week 2022

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