Arthur Jafa alle OGR: la potenza della blackness fuori dai cliché

Con un lavoro seducente e al contempo spaventoso l’artista Leone d’Oro alla Biennale del 2019 porta nel campo dell’astrazione visuale la sua pluriennale ricerca sull’identità nera, sul suo manifestarsi in sé e nel rapporto con l’occidente bianco

Una veduta dell’installazione di «ARTHUR JAFA, RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON» alle OGR di Torino, 2022. Foto Andrea Rossetti per OGR Torino. Cortesia di OGR Torino
Micaela Deiana |  | Torino

L’occhio sulla Torino Art Week 2022

L’intera produzione di Arthur Jafa è animata dalla volontà di restituire nelle arti visive la potenza, la bellezza e insieme il senso di alienazione che caratterizza la black music. Qualsiasi sia il medium utilizzato, dall’installazione alle immagini di archivio, fino ad arrivare alle immagini in movimento, serpeggia la tensione verso una nuova sensorialità capace di amplificare la narrazione della blackness.

Con questo progetto studiato appositamente per il binario 1 delle OGR - Officine Grandi Riparazioni, questa tensione si arricchisce di una spazialità magniloquente. I lavori che compongono la mostra «RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON» (dal 4 novembre al 15 gennaio), mostrati per la prima volta in Italia, rispondono alla consueta pratica della giustapposizione cara all’artista, ma, nell’entrare in dialogo, acquistano un nuovo carattere tridimensionale, dando vita a un’architettura sacra di immagini e suoni.

Attratto dalla musica, il visitatore inizia il proprio cammino in un sinuoso canyon di immagini tratte dai «Picture Books», pratica d’archivio a cui Jafa lavora dalla metà degli anni Ottanta. Una collezione che nasce analogica e approda poi al digitale, e incorpora le macro e microstorie di conquista ma soprattutto di sofferenza delle comunità afroamericane. Fra i wallpaper si inseriscono elementi scultorei in metallo laccato neri e rossi, readymade dal carattere politico. Per un principio di decontestualizzazione che accomuna tanto un orinatoio in un museo quanto le maschere rituali africane in un patinato loft newyorkese, gli elementi industriali da scarti diventano  corpi concettuali che vanno ad amplificare il senso disturbante delle immagini.

Il percorso obbligato ci porta ad «AGHDRA». Se il canyon richiama il principio di svelto montaggio della ricerca filmica dell’artista (dal celebre «Love Is the Message, the Message Is Death», 2016 al «The White Album» che gli è valso il Leone d’Oro nella mostra «May You Live in Interesting Times», Biennale d’Arte di Venezia 2019), nel grande schermo la frenesia della giustapposizione si scioglie e fluisce densa in 85 minuti realizzati in CGI. Si tratta del primo film realizzato dall’artista con la tecnica della computer graphic, per la quale si è avvalso della collaborazione dello studio francese BUF, lo stesso che ha firmato gli effetti speciali del film «The Matrix». Oltre un’ora in cui il soggetto non cambia mai, dodici lente inquadrature che permettono di osservare da diverse angolazioni lo stesso orizzonte a cui il pubblico assiste adagiato su una duna nera, che vibra e pulsa al ritmo dell’installazione.

Ma a che cosa assiste esattamente? Il sole e la luna si susseguono su una superficie di frammenti di pietra galleggianti, che sbattono fra loro e ondeggiano secondo un’andatura irregolare. Proprio quando ci sembra che la corrente accompagni verso di noi i detriti e temiamo di venirne sommersi, ecco che la direzione cambia, per riportare il flusso verso il largo.

Vengono così meno quindi i riferimenti spaziali per collocarci all’interno della scena: una linea di costa? Una barca? Siamo anche noi su una zolla? Soprattutto, su che cosa galleggiamo? Sui frammenti di una terra distrutta da un terremoto? Su ciò che rimane di uno scontro fra placche tettoniche? La superficie liquida che intravediamo sotto è magma che ribolle o flutti di un non meno insidioso oceano? O forse ci troviamo sulla pelle di un organismo vivente pronto a risvegliarsi e scrollarsi di dosso questi piccoli uomini? È questo uno spazio in cui dobbiamo sostare, per sopravvivere, o che dobbiamo necessariamente attraversare per trovare un porto sicuro sull’altra sponda, per non venire inghiottiti da queste onde così difficili da decifrare?

Con questo lavoro, seducente e al contempo spaventoso, Arthur Jafa porta nel campo dell’astrazione visuale la sua pluriennale ricerca sull’identità nera, sul suo manifestarsi in sé e nel rapporto con l’occidente bianco.
L’artista racconta che una delle prime ispirazioni da cui «AGHDRA» prende vita è arrivata durante un viaggio a Tokyo e dalla discussione condivisa con il figlio su Godzilla come l’incarnazione del trauma della bomba atomica.

Viene da chiedersi quindi quale sia il trauma che si vuole elaborare. Il pensiero non può che correre a quello della schiavitù che ha così profondamente segnato l’identità della discendenza afroamericana. L’artista ha parlato dell’immagine come «un [James] Turrell mentre sei incatenato sul fondo di una nave». Siamo nel passato e il punto di vista ribassato è quello di una nave di schiavi che attraversa l’Atlantico? Siamo nel futuro, sull’orlo di un’apocalisse ecologica pronta ad avvolgere la società dell’Antropocene?

Ogni tentativo di ricondurre questi interrogativi a un’unica risposta tradirebbe la profondità di questo lavoro. Lo conferma il paesaggio sonoro che ci accompagna sulle onde. Celebri brani soul, blues e R&B, composti fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta (da The Isley Brothers a Roberta Flack)  scivolano l’uno sull’altro, armonizzati da un profondo vocalizzo che funge da basso continuo.

«You abandoned me / Love don't live here no more» (Rose Royce). « Who am I? Who am I? / A fool without an alibi / I should’ve paid more attention, woah, to what she said» (The O’Jays).

Sono canzoni che parlano di dolore e perdita, ma soprattutto d’amore. È qui che troviamo la via per entrare in «AGHDRA», attraverso il ruolo delle canzoni d’amore nella black music. L’artista ha evidenziato in più occasioni quanto il ridurre certe espressioni a mera lirica sentimentale ci impedisca la comprensione di un linguaggio stratificato di respiro esistenziale. Sotto la superficie del cliché veicolato dal pop commerciale, brucia la narrazione politica di una cultura marginalizzata, che attraverso i generi cosiddetti minori rivendica lo spazio per esprimere la propria voce al di là dell’egemonia dominante.

Il titolo del progetto alle OGR Torino alterna il nome dell’artista a quelli di tre grandi chitarre elettriche che hanno segnato la storia della musica afroamericana: Arthur Rhames (1957-1989), Pete Cosey (1943-2012), Ronny Drayton (1953-2020). La musica è al centro della performance ideata dall’artista per l’opening della mostra, che ha visto la partecipazione di Jason Moran (pianista e compositore jazz), Okkyung Lee (violoncellista e compositrice) e Melvin Gibbs (bassista).

«RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON», è un progetto che nasce dalle OGR Torino in collaborazione la Serpentine Gallery, con la curatela di Claude Adjil e Judith Waldman, insieme a Hans Ulrich Obrist. Fa parte di un tour espositivo della mostra «A Series of Utterly Improbable, Yet Extraordinary Renditions» (Serpentine, 2017), che,  prima di toccare Torino, è stata presentata alla Julia Stoschek Collection di Berlino (2018), al Moderna Museet di Stoccolma (2019), alla Galerie Rudolfinum di Praga (2019) e al Serralves Musem of Contemporary Art di Porto (2020).

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