Picasso Grande Mattatore del secolo breve

Nel cinquantenario dalla morte, il prossimo anno Picasso verrà di nuovo messo in discussione. Innovatore o prosecutore della storia della pittura occidentale? Instancabile creatore o «liquidatore finale» di un’illustre tradizione? Genio o provocatore?

Pablo Picasso ritratto da Irving Penn nel 1957 nella villa La Californie a Cannes © The Irving Penn Foundation
Franco Fanelli |

«Picasso è nato vecchio, vecchio come il secolo che l’ha visto nascere» ha scritto Jean Clair per raccontare una vita spesa a «imparare a disimparare, ritrovare la freschezza che un sapere divenuto troppo schiacciante aveva oscurata, ritrovare la ferocia e la rapidità del grande predatore che un eccesso di cultura aveva indebolito». Morì vecchio, l’8 aprile 1973, a 92 anni. Il prossimo anno una quarantina di mostre in tutto il mondo celebrerà il cinquantenario della morte di Picasso, in una cooperazione Francia-Spagna e sotto la regia di Cécile Debray, presidente del Musée Picasso Paris, e Bernard Ruiz-Picasso, nipote dell’artista e coniuge della gallerista Almine Rech, fondatrice del Picasso Museo Málaga.

Era vecchio solo in senso anagrafico o anche perché ormai era un pezzo da museo? Altri giganti dell’arte, come Michelangelo, Tiziano, Tiepolo, Goya, morirono a un’età eccezionalmente elevata e, come lui, in piena attività. Ma nessuno di quei grandi ebbe in sorte l’invecchiamento precoce inflitto a molti protagonisti del ’900, il secolo in cui l’arte visiva conobbe rivoluzioni, che a un dato punto inclusero persino l’iconoclastia come poetica, non paragonabili ad altri mutamenti, pure profondi, susseguitisi nella storia della pittura, della scultura e dell’architettura. C’è di più. Come ha dichiarato nel 1999 in una conferenza lo storico Eric Hobsbawm, «le neoavanguardie dagli anni Sessanta in avanti non si impegnarono più a rivoluzionare l’arte, ma a decretarne la morte. E da qui la curiosa involuzione verso l’Arte concettuale e il Dadaismo».

Picasso muore nel secolo che per due volte, negli anni Venti e alla fine degli anni Settanta, rinnega i suoi figli, i concetti di «avanguardia» e poi di «moderno». Ma, scrisse André Malraux, Picasso è un caso a sé: «Appartiene alla storia dell’arte perché non è contemporaneo a niente». Pittore, come sempre si definì, visse e morì nel secolo in cui la pittura, fra tutte le arti, aveva conosciuto la sua crisi più acuta. Lo stesso Hobsbawm, sempre a proposito del fallimento delle avanguardie, ma soprattutto dell’impasse conosciuta dalla pittura nel ’900, ha aggiunto: «La vera rivoluzione delle arti del XX secolo non si è verificata con le avanguardie del modernismo, ma al di fuori di quell’area che generalmente va sotto il nome di “arte”. La rivoluzione è avvenuta combinando la logica della tecnologia con quella del mercato di massa, con una sorta di democratizzazione del consumo estetico, compiuta principalmente dal cinema, figlio della fotografia e arte principale del XX secolo. “Guernica” colpisce indubbiamente di più ma, in termini tecnici, “Via col vento” di Selznick [produttore del film diretto da Victor Fleming, Ndr] è un’opera più rivoluzionaria».

Dopo la scomparsa del genio, a dire la verità, non è accaduto chissà che cosa nell’arte; possiamo affermare che non c’è stato un altro Picasso, ma anche che nessun artista e nessuna corrente ha portato con sé novità di rilievo pari a quelle che si susseguirono ai tempi in cui lui era in vita o di cui, all’inizio del ’900, fu interprete. Se per la gran parte delle neoavanguardie del secondo dopoguerra erano fondamentali la persistenza del messaggio e dell’utopia modernista (Action Painting, New Dada, Pop art, Concettualismo, Minimalismo, Environmental art, Azionismo, Dada, Poverismo ecc.), anche l’arte dei nostri giorni fa saldamente capo a solidi precedenti e illustri epigoni: Surrealismo, Dada, Pop.

Picasso è l’artista cui viene dedicato ogni anno il maggior numero di mostre, con periodici picchi come quello toccato nel 2017, quando, pure in assenza di qualsiasi occasione speciale, furono oltre sessanta. E anche ora ne sono in corso 25 in tutto il mondo. La sua intramontabile stella è alimentata dalla luce che emana da un genio che, ribadendo la definizione di Malraux, non è contemporaneo a nulla e nessuno: riesce a essere nello stesso tempo un pezzo di storia dell’arte, un mito e un artista tenacemente ancorato al presente. Questo perché riuscì nella formidabile impresa di vivere tre vite e tre epoche, a un tempo e dominando e lasciandosene portare, come nell’impetuosa corrente di un fiume in piena, l’accelerazione che nel ’900 coinvolse tutte le attività umane, arte e cultura comprese.

Nato a Malaga, dopo una formazione basata sui solidi principi accademici, figlio di un insegnante d’arte, elaborò nei periodi blu e rosa l’eredità simbolista e realista del XIX secolo, attraversò il Cubismo, il Surrealismo e il Ritorno all’ordine tra le due guerre, terminò di «consumare» il pasto modernista negli anni Cinquanta e poi passò ad altro. Questo «altro» è una prolifica tarda produzione a proposito della quale negli ultimi anni le fila di coloro che considerano la sua vicenda sostanzialmente conclusasi con gli anni Cinquantavanno vanno progressivamente assottigliandosi. E cresce, al contrario, il partito dei sostenitori della grandezza dell’ultimo Picasso, quello che nel villaggio di Mougins, in Provenza, dove dal 1961 aveva stabilito la sua residenza, produce a ritmi forsennati.

Un amuseur public
Eppure dubbi sulla sua produzione post 1940 vennero sollevati piuttosto precocemente. Già nel 1931, quando si ritentò di invitarlo alla Biennale di Venezia (rifiutato nel 1905, l’artista aveva ignorato le avance pervenutegli nel 1926 e nel 1928, accettando infine nel ’48, senza peraltro partecipare alla vernice e, pare, visitare la mostra), Antonio Maraini, segretario generale della rassegna, manifestava il suo scetticismo perché «pensandoci bene, non so se Picasso rappresenti ancora un indirizzo o una mentalità giovane e viva, o non si piuttosto un sorpassato». Ma se Maraini può essere considerato non del tutto attendibile vista la sua adesione al fascismo (anche se Picasso, per inciso, fu sempre un grande ammiratore di Sironi), non lo è Clement Greenberg, che nel 1957 scriveva un tagliente profilo intitolato Picasso a settantacinque anni. Secondo il critico americano «Picasso comincia a copiare sé stesso» già alla fine degli anni Trenta.

«Il piacere che si può ricavare dai suoi dipinti posteriori al 1938, anche dai migliori, è guastato, nella maggior parte dei casi, dalla prevedibilità della loro concezione». La sentenza contiene un impietoso paragone con il suo rivale di sempre: «Forse Picasso non ha retto al mito di sé stesso (...). Sebbene rispetto alla maggior parte dei suoi coetanei sia meno condizionato dalla vecchiaia, Picasso ne è tuttavia prigioniero, molto più di quanto non lo fosse Matisse». A un livello critico meno elevato, inizia a diffondersi l’immagine dell’artista imbroglione, che nel 1951 avrebbe confessato a Giovanni Papini (suo coetaneo, nato nel 1881) di essere soltanto «un amuseur public che ha sfruttato meglio che ha saputo l’imbecillità, la vanità e la cupidigia dei suoi contemporanei. Ed io, dal Cubismo in poi, ho contentato questi signori e questi critici con tutte le mutevoli bizzarrie che mi son venute in testa, e meno le capivano e più mi ammiravano».

Il brano è citato nel 1994 da Brian Sewell, che sul quotidiano «The Guardian» stronca una mostra sulla scultura di Picasso allestita alla Tate Gallery: «Una mostra di Picasso in cui predomini la scultura rivela la verità sottintesa alla “confessione” di Papini: che il genio di Picasso era minato dal “nuovo, lo strano, lo scandaloso, mediante i quali egli induceva in confusione i critici accondiscendenti e si divertiva a spese di un pubblico imbecille. E lo fa ancora».

La storia dell’arte picassificata
Quando Sewell scriveva la sua recensione era però in corso da tempo la santificazione (o la riabilitazione) totale della produzione picassiana. Anche di quella degli ultimi anni. Il venticello postmodernista che aveva iniziato a soffiare alla fine degli anni Settanta disseminava spore revisioniste in tutto il mondo. Nel 1981 alcuni quadri tardi di Picasso vennero inclusi nella mostra «A New Spirit in Painting», in una di quelle ammucchiate «orizzontali» di moda all’epoca, per cui alla Royal Academy, da Auerbach a Warhol, includendo Espressionismo astratto, Transavanguardia, Neoespressionismo, poveristi temporaneamente pentiti o convertiti al pennello, pittori amici della citazione poetica (Twombly) o matissiana (Hodgkin) venivano abbattute recinzioni stilistiche ed etichette ideologiche sull’altare di un «à rebours» citazionista.

Gran sacerdote della rivisitazione, l’ultimo Picasso omaggia Velázquez, El Greco e Rembrandt. La mostra londinese non era solo un abile cortocircuito critico mercantile, attraverso il quale una delle icone del Modernismo, Picasso, veniva identificato come precursore del Postmodernismo. Il fatto è che la terza vita del più grande artista del ’900 è realmente e intenzionalmente dedicata alla presa di coscienza dell’anacronismo dell’ideale e dell’utopia modernisti.

Nel 2009 la mostra «Picasso. Mosqueteros. The Late Works» organizzata da Larry Gagosian in una delle sue sedi di New York portò a compimento il processo di rivalutazione. Costituita da dipinti appartenenti a Bernard-Ruiz Picasso, uno dei nipoti dell’artista, e curata da John Richardson, autore della monumentale biografia di Picasso, la rassegna venne accolta trionfalmente dalla stampa. Se Richardson, nel suo saggio in catalogo, si chiede «come potrebbero questi dipinti spudoratamente oltraggiosi con la loro ironia farsesca, il loro barocco caricaturale, la loro sovrabbondanza di genitali, la loro distorsione temporale da fantascienza e la loro sovversiva commedia nera, essere riconciliati con i precetti accettati della storia dell’arte?», James Panero, su «The New Criterion» dà la risposta esatta: «Questi dipinti sono pura storia dell’arte».

Secondo Richardson, negli ultimi tre anni della sua vita Picasso potrebbe aver dipinto fino a quattrocento quadri; intorno al suo novantesimo compleanno Picasso eseguì sei enormi tele in meno di una settimana. Saremmo di fronte a «un’incredibile esplosione di energia vulcanica. Voleva in qualche modo assimilare l’intera tradizione figurativa occidentale e picassificarla». Sino a un certo periodo si è pensato che, prima di Francis Bacon, gli ultimi grandi artisti direttamente influenzati da Picasso fossero stati Gorky, Pollock e de Kooning, che lo assunsero, all’inizio della loro carriera, come paradigma della nozione di «moderno». Va considerato che le due opere più celebri di Picasso giunsero assai presto a New York.

«Les Demoiselles d’Avignon» vi approdarono nel 1937, esposte alla galleria Seligmann di New York, che aveva acquistato l’opera, insieme ad altri nove Picasso, dalla vedova del loro primo proprietario, il mercante Jacques Doucet (al quale, consigliato da un entusiasta André Breton, erano bastati, nel ’27, 25mila franchi, cifra molto bassa anche a quei tempi per convincere l’autore a privarsene). Una volta esposto a Manhattan, Alfred Barr ne perorò l’acquisto da parte dei trustee del MoMA, definendolo «il quadro più importante del XX secolo».

«Guernica» è al MoMA già nel 1939, in occasione della mostra «Picasso: Forty Years of His Art», due anni dopo la sua apparizione al Padiglione Spagnolo all’Esposizione Internazionale di Parigi. Tornò a Madrid soltanto del 1981 (Picasso, come noto, dispose che l’opera non tornasse in Spagna sino a che non vi fosse ripristinata la democrazia) e nel ’92, in una sorta di psicodramma mediatico e politico, venne trasferito al Museo Reina Sofía. La fortuna e l’influsso di Picasso sugli artisti americani si sono estesi a un pittore oggi tornato di gran moda come Philip Guston, anche se tra i suoi eredi più diretti resta indiscusso il primato di Jean-Michel Basquiat, seguito da George Condo.

Di acqua sotto i ponti ne è passata rispetto al precoce pensionamento di Picasso decretato dalla critica e ai tempi in cui in Italia il «picassismo», anche in virtù di comuni simpatie politiche, si diffuse quando «Guernica» divenne l’esempio di come la rivoluzione formale potesse farsi portatrice di messaggi sociali e politici (non dimentichiamo che intorno al 1948 una della maggiori preoccupazioni degli artisti verteva sulla possibilità di essere contemporaneamente formalisti e marxisti). E il «cuborealismo» divenne un sottostile praticato da Guttuso, da Birolli, Pizzinato, Corpora, Cassinari, Migneco ecc., sotto gli occhi, peraltro, di non pochi detrattori, il più celebre dei quali fu Giorgio de Chirico.
Anthony Hopkins veste quasi gli stessi panni per calarsi nel personaggio dell’artista di Malaga: in questo fotogramma di «Surviving Picasso», film del 1996 diretto da James Ivory, l’attore britannico è affiancato da Natascha Mcelhone- François Gilot
L’anti Caravaggio
Un innovatore, Picasso, lo è stato anche sotto il profilo mediatico, non foss’altro per essere stato uno degli artisti più fotografati di sempre e più presente sui rotocalchi. Con Andy Warhol, è uno dei pochissimi artisti non «maudit» entrati nell’immaginario popolare. Da questo punto di vista è una specie di Caravaggio o Modigliani al contrario. Intanto perché la bohème al Bateau-Lavoir a Montmartre, per lui, durò relativamente poco, se nel giro di tre anni, dal 1908 al 1911, i «Saltimbanchi» comprato da André Level per mille franchi decuplicò il suo valore; e nel ’31, in asta, superò il muro del milione di franchi. E poi perché invece di rimetterci precocemente e tragicamente la pelle, come vuole il feuilleton dell’arte raccontata al popolo, è passato alla storia anche come seminatore di distruzione e tragedie sentimentali e familiari.

Nel numero di marzo del 1987 di «Il Giornale dell’Arte» Andrew Decker scrisse un dettagliatissimo articolo circa gli eredi e l’eredità dell’artista: «Picasso visse dal 1905 al 1912 con Fernande Olivier; dal 1927 al 1937 con Marie-Thérèse Walter; dal 1937 al 1943 con Dora Maar; e dal 1943 al 1953 con Françoise Gilot. Da Marie-Thérèse ebbe una figlia, Maya, nel 1935; dalla Gilot ebbe Claude, nel 1947, e Paloma due anni più tardi. Picasso rimaneva in contatto con le donne che avevano vissuto con lui e spesso dava loro degli aiuti finanziari. Contribuiva anche al mantenimento dei figli (…) Nel 1961, a ottant’anni, Picasso sposò Jacqueline Roque, allora trentaseienne. Maya, che a quel tempo aveva 25 anni, si era sposata e stava formando la propria famiglia. Claude e Paloma avevano, rispettivamente, 14 e 12 anni, e soltanto tre anni più tardi, Picasso ruppe i rapporti con loro dopo che la loro madre aveva pubblicato Vita con Picasso, in cui si rivelava, fra le altre cose, che la sfera emotiva dell'artista era improntata al sadismo. L’unico figlio cui Picasso rivolgeva ancora la parola alla fine della sua vita era Paulo».

Il citato libro di Françoise Gilot, il film di James Ivory del 1996 ad esso ispirato (con Anthony Hopkins nel ruolo dell’artista) e prima ancora una spaventosa biografia scritta da Arianna Stassinopoulos Huffington edita da Simon & Schuster (Picasso: Creator and Destroyer), hanno calcato la mano sul lato oscuro del pittore. Da Olga Koklova, condannata alla disperazione dopo l’abbandono del tetto coniugale da parte dell’irrequieto consorte, Dora Maar, la donna piangente di infiniti ritratti, Marie-Thérèse Walter e Françoise Gilot, sino a Jacqueline Roque, la seconda moglie, che nel 1986 si è suicidata (imitando quanto, nel 1977, aveva fatto la stessa Walter), le donne che incrociarono il Minotauro di Malaga animano il lato tragico della leggenda picassiana.

La vita parigina di Picasso era iniziata del resto con una tragedia, il suicido per una delusione amorosa dell’amico Casagemas, con cui aveva raggiunto la Francia da Barcellona. Ma sono diventati leggenda i suoi primi collezionisti (Gertrude Stein in testa), i suoi fotografi (Brassaï, Robert Capa, Robert Doisneau, David Douglas Duncan, Henri Cartier-Bresson), i suoi mercanti (Paul Rosenberg, Ambroise Vollard, Daniel-Henry Kahnweiler, Pierre Matisse), il suo ultimo stampatore (Aldo Crommelynck), il suo segretario (Jaime Sabartés), il suo autista negli ultimi anni (Maurice Bresnu detto Nounours), il suo massimo biografo (John Richardson), gli studiosi della sua opera (Douglas Cooper, Roland Penrose), il curatore delcatalogo di una produzione che tra dipinti, disegni, sculture e stampe supera le 40mila opere (Christian Zervos, che lo iniziò nel 1932 e che morì dopo averne terminato il 22mo volume dei 33 totali), il suo bassotto Lump, la sua capra Esmeralda.

E sono leggendari i luoghi in cui stabilì i suoi atelier: a Parigi, nel 1901 quello in Boulevard de Clichy; il Bateau-Lavoir; lo studio in Rue de la Boétie nel 1918, vicino al suo mercante Paul Rosenberg; nel ’36 quello in Rue des Grands Augustins: glielo trova Dora Maar. Tra un trasloco e l’altro, quelli di Boulevard Raspail (1912) a Montparnasse e, per pochi mesi, nella vicina Rue Schoelcher e a Montrouge. E, naturalmente, gli atelier nel Sud del Francia, tra i quali Antibes, Vallauris e infine Mougins. Né disdegnava la Bretagna (Dinard) e gli spazi del castello di Boisgeloup, a nord di Parigi, residenza della moglie Olga.

La leggenda e l’impero
La leggenda è difesa da un impero che si estende su quattro musei (a Parigi, il più completo, nato tramite le «dation» pervenute allo Stato francese dagli eredi in cambio tasse e nel 1985, a Barcellona, a Malaga e ad Antibes). Claude Ruiz-Picasso, nato nel 1947 dall’unione con Françoise Gilot, è al timone della Picasso Administration, cui fa capo la Succession Picasso. Alla sua morte, lo nominò erede insieme agli altri figli Maya Ruiz-Picasso e Paloma Ruiz-Picasso e ai nipoti Bernard Ruiz-Picasso e Marina Ruiz-Picasso, figli di Paul Picasso. L’eredità è regolata secondo il regime di «indivision», vale a dire di proprietà collettiva: «quest’ultima», si legge sul sito ufficiale, è «costituita essenzialmente dai diritti di proprietà intellettuale legati all’opera e al nome di Picasso».

Il che vuol dire una miniera d’oro, tra diritti di seguito, diritti sulla riproduzione fotografica delle opere e, nel 2000, quelli incassati dalla Citroën per la produzione della Xsara Picasso, con l'indignazione di Jean Clair, all’epoca direttore del Musée Picasso di Parigi, le cui sale, ricostruite in studio, fecero da set per lo spot pubblicitario. Il 2023 sarà anche l’occasione di bilanci e analisi di mercato. A proposito, la sua attuale collocazione è all’ottavo posto, con «Femmes d’Alger», un d’après Delacroix del 1955, battuto all’asta per 179,365 milioni di dollari nel 2015 dalla Christie’s, che lo ha venduto all’ex primo ministro del Qatar Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani.

Lo precedono il «Salvator Mundi» attribuito a Leonardo da Vinci (450 milioni di dollari), un Gauguin da 300 milioni, «Interchange» di de Kooning (anch’esso del ’55, 300 milioni), i «Giocatori di carte» di Cézanne (250 milioni), la «Orange Marilyn» di Warhol (250 milioni), «Number 17», un dripping del 1948 di Pollock (200 milioni) e un Rothko del 1951 (186 milioni). Ma chi ha vinto il grande match del XX secolo? L’Astrattismo oggi tornato di moda o un ostinato creatore e rivisitatore d’immagini? L’arte che fa a meno della manualità o un virtuoso delpennello? Duchamp o Picasso?
Un Maurizio Cattelan «picassizzato» posa davanti all’originale © Foto Caroline Minjolle, Beyeler 2019
Arlecchino e Celestina
Poco dopo la morte dell’artista, André Malraux, all’epoca Ministro francese per gli affari culturali, venne chiamato dalla vedova Jacqueline Roche a Mougins perché la assistesse nel compimento di una delle volontà del marito, cioè la donazione allo Stato della sua collezione di dipinti antichi. Da quell’incontro nacque il libro Picasso. Il cranio di ossidiana, una sorta di lunga orazione funebre nella quale l’opera tarda, i dipinti ossessivamente datati e accumulati nella casa studio, ispirano allo scrittore ministro un consuntivo sul lascito spirituale del pittore.

Marlaux celebra l’artista conferendogli il ruolo di archetipo, degno appunto di costituire un punto di riferimento e di raffronto nel suo museo immaginario. Il cranio di ossidiana esalta in Picasso il portatore di un «insolito» che «nasce dalla battaglia che le sue opere ingaggiano con la creazione». Nella scultura, «L’insolito di Picasso non nasce da incontri sorprendenti di oggetti: gli oggetti accostati non evocano un mondo, sia pure un mondo ignoto: il mondo che esprimono può esistere soltanto nella scultura (...). Gli spettacoli del Surrealismo imitano quello che non esiste: le forma di Picasso lo inventano».

I «Moschettieri», tema su cui l’anziano artista si sofferma in infinite tele, derivano da Rembrandt, un pittore che, come Picasso, «è senza precursori». E, come lui, fa parte di quei «maestri che diventano i profeti di un dio sconosciuto». E Picasso «fu abitato dalla metamorfosi più profondamente che dalla morte. Le era legato come i creatori di feticci lo sono al loro popolo d’oltretomba (…) A partire dalle “Demoiselles d’Avignon”, la costante, nella sua arte vagabonda, è l’approfondimento della rivolta». Ma è proprio su questo ossimoro (come si può approfondire ciò che è sempre in movimento?) che Roger Caillois, le cui poliedriche attitudini comprendevano la scrittura, l’antropologia e la critica, costruisce, in un articolo pubblicato su «Le Monde» il 28 novembre 1975, una lucida confutazione al mito di Picasso demiurgo e archetipo.

«Non si approfondisce una rivolta (...). Possiamo solo prolungarla, cioè diluirla (…) dandole poco a poco non so quale carattere di riflesso, che rischia di trasformarla in routine (…). Come uomo, smantella l'aspetto umano. Come pittore, smonta, ritaglia i capolavori precedenti». Più che un genio, per Caillois Picasso è «un sintomo. Non lo vedo come un generoso seminatore dei semi del futuro, ma come l’astuto e sardonico liquidatore di un’impresa secolare di cui prevedeva, come i topi che lasciano la nave, l’imminente dissoluzione e che affrettò (…) la dichiarazione di fallimento».

Ma se fosse così, più che un sintomo, nella sua «terza vita», iniziata a metà degli anni Cinquanta, Picasso seppe preconizzare l’assunto, destinato a dominare ciò che avremmo chiamato arte contemporanea, secondo il quale l’idea e l’elaborazione intellettuale sono l’opera, al di là della concretezza fisica o della «bellezza» che esse producono. La «Suite 347», il tour de force incisorio che lo impegna a Mougins tra il marzo e l’agosto 1968, contiene molti indizi in tal senso.

Nella «grande parade» che sfila in quelle incisioni appaiono gli autori amati (Rembrandt, Delacroix, Poussin, Raffaello, El Greco, Velázquez). Il mito diventa un circo in cui va in scena il teatro (la commedia) della pittura. Il pittore che appare in quelle acqueforti è un voyeur spesso impotente, il pene flaccido anche di fonte al dimenarsi di un’odalisca. La visione diventa l’atto preliminare e finale, e non a caso la grande protagonista della suite è «la puta vieja Celestina» già nota alla commedia cinquecentesca, la mezzana che mostra la merce al cliente, la cui maestria consiste nell’esaltare la visione.

Nel 1993, in The Artist, His Model, Her Image, His Grace, Picasso Pursuit of the Model, la studiosa americana Karen L. Kleinfelder spiegò come l’iterazione dei soggetti, le infinite variazioni sul tema nella «Suite 347» e in tutto il tardo Picasso, sembrano mettere in crisi il concetto di unicum, e la traduzione in parodia della figura dell’artista, non più Minotauro ma Arlecchino (altra creatura degli inferi), potrebbe essere una presa di distanza dalla retorica dell’atto creativo. Potremmo rileggere la vicenda di Picasso inscrivendola nella circolarità.

Il tema principale, quello della pittura che riflette su sé stessa (forse con il presagio che lui sarebbe stato l’ultimo a poterlo e a doverlo fare), non può che essere affrontato attraverso la rivisitazione di paradigmi del passato. Picasso lo fa all’inizio e alla fine: nel 1907, «Les Demoiselles» sono «Las Meninas» del XX secolo; un anno prima, il «Ritratto di Gertrude Stein» si era aggiunto al «Monsieur Bertin» di Ingres; la lampadina di «Guernica», la lanterna portata dalla bambina per guidare il mostro accecato nella «Minotauromachia» sono scintille partite dalla grande lanterna di «Los fusilamientos» di Goya. È vero, come diceva Caillois, che «nei suoi primi dipinti, Picasso si preoccupò (…) almeno di lasciare la legittima presunzione che avrebbe potuto effettivamente fare ciò che aveva disfatto».

Ma negli anni Settanta, in un contesto, estetico e sociale profondamente mutato, in modalità che facevano a pezzi la cultura con cui sino alla metà del secolo l’arte aveva potuto dialogare, il dramma lascia il posto alla parodia. E se, come ha scritto Jean Clair, la malinconia è l’astro che domina la vicenda picassiana, essa è il sentimento che unisce i saltimbanchi delle sue prime tele ai buffoni delle opere estreme. Il cinquantenario sarà anche l’occasione per verificare se Picasso non sia ancora immune dallo scetticismo di chi lo reputa solo un astuto gestore del proprio mito. In una delle «Interviste impossibili», la serie radiofonica trasmessa dalla Rai negli anni Settanta, l’intervistatore di turno, lo scrittore Carlo Castellaneta, insinua: «Qualcuno ha detto che Lei, signor Picasso, prima e più che dipingere capolavori ha fatto della sua vita un capolavoro...». E lui: «Le sembra poco?».

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