Barthélémy Toguo: «Un progetto artistico in Africa deve essere anche un progetto politico»

A pochi giorni dall’inaugurazione della sua installazione nella Piramide del Louvre, l’artista racconta le motivazioni del suo ritorno in Camerun e il suo impegno alla Bandjoun Station

Barthélémy Toguo di fronte alla Bandjoun Station nel 2016
Alessandra Mammì |  | Ginevra

In una tarda mattinata di settembre Barthélémy Toguo, a Ginevra, sta inaugurando «Sur le chemin de l’éspoir»: un’opera unica composta da tante sculture in bronzo disseminate nell’ombra umida di un giardino romantico. Dovrebbe decorare l’ingresso di un nuovo complesso residenziale al Plateau de Frontenex 7, un bel condominio tra i boschi sulle colline intorno al lago, aperto a progetti di designer, artisti e paesaggisti. Ma quello realizzato da Toguo e dalla curatrice Adelina von Fürstenberg, militanti entrambi di un’idea di arte calata nei bisogni e nei desideri degli uomini, è un progetto speciale. Non è lì per esaltare la struggente bellezza dei muschi, ma per lasciare un segno che parli di immigrazione ed esodo, di perdita e conquista, di speranza e di paura. Sono volti e mani che spuntano dalla terra come piante, anime perdute o creature rigenerate nell’armonia della natura.

Così come perduti e ritrovati ci appariranno i giganteschi e morbidi fagotti avvolti in stoffe africane che Toguo sta per issare come una vela al centro della Piramide del Louvre. Un raggio di colore e umanità per spezzare la gelida, euclidea perfezione di quell’architettura di cristallo. È «Le pilier des migrants disparus» che dal 12 ottobre al 23 gennaio «ci ricorderà i tragitti pericolosi percorsi da uomini, donne, bambini per fuggire da guerre, carestie, catastrofi climatiche. La Pyramide sarà lo scrigno di vetro dove fluttuano questi immensi fagotti ormai orfani dei loro padroni», scrive Laurence Bertrand Dorléac, la storica dell’arte che per tanto compito ha scelto «l’arte di Barthélémy Toguo perché sa conciliare bellezza, emozione e impegno».

L’incessante impegno di questo artista capace di usare tutto il suo denaro per gettarsi in progetti utopici che nelle sue mani si trasformano in realtà concrete: come quello di costruire un centro d’arte contemporanea su un altopiano in mezzo al Camerun a 300 chilometri dalla capitale. È la Bandjoun Station, un potente, colorato e fantasmagorico edificio in cemento armato di cinque piani, ispirato alla tradizione camerunense ma coperto di mosaici in stile Toguo. Un posto pieno di stanze, atelier, residenze per artisti e spazi comuni [è stato inaugurato nel 2013, Ndr]. Un miraggio, una sfida ma soprattutto, come spiega in questa conversazione, un nuovo modo di pensare e fare arte.
«Sur le chemin de l’espoir» (2022) di Barthélémy Toguo © Anouk Schneider Agabekov
Barthélémy Toguo, lei ha lasciato il Camerun giovanissimo, ha studiato in Francia e in Germania, abitato a Parigi e lavorato ovunque nel mondo, conquistando inviti in importanti istituzioni e in una galleria internazionale come Lelong & Co. Ora però ha deciso di tornare a casa. Di più: di costruire lì una scuola, un museo, un nuovo esperimento. Perché?
Perché volevo ridare qualcosa all’Africa. Qualcosa di concreto, solido. Un edificio che portasse l’arte in un luogo dove l’arte ancora non c’era. Un museo arricchito da una biblioteca, una collezione di opere, scuola e laboratori. È così che è cresciuta la Bandjoun Station, con l’aiuto di artisti amici che mi hanno donato opere, direttori di musei e curatori, da Lóránd Hegyi ad Adelina [von Fürstenberg] che mi hanno spedito libri, David Lynch che mi ha donato trenta litografie e persino la mia galleria che ha scambiato le mie opere con grafiche di Louise Bourgeois. Ma un progetto artistico in Africa deve essere anche un progetto politico: per questo Bandjoun non è solo luogo d’arte ma anche centro di produzione agricola.

Perché pensa che la produzione agricola sia necessaria a un luogo d’arte?
È necessaria all’Africa. Fu un grande statista come Léopold Sédar Senghor [poeta, politico, teorico primo presidente del Senegal, Ndr] a capire che l’impoverimento dei nostri agricoltori dipendeva dal prezzo delle materie prime, fissato dal mercato occidentale. A Bandjoun invece tutta la catena è nelle nostre mani. Si coltiva, si raccoglie e si prepara un imballaggio ideato con le nostre litografie. Si fissa noi il prezzo e si restituisce il profitto all’agricoltore. Così è per il caffè, il mais, gli ortaggi e tutto quello che produciamo. Bandjoun è un museo-fattoria modello che non ha eguali.

Gli abitanti del villaggio sono stati felici di vederla tornare in Camerun con idee tanto innovative?
All’inizio, per niente. Avevo costruito l’edificio e lo stavo decorando con il mio universo grafico. Geometrie e forme che ai loro occhi sembrarono un vocabolario magico. Pensavano che fosse la sede di una setta e mi evitavano come la peste.
La Bandjoun Station
Come li ha convinti delle sue buone intenzioni?
Mi aiutò un prete che amava l’arte e dirigeva la scuola cattolica. Un giorno portò bambini e maestre a farmi visita. Io mostrai alcune opere, la biblioteca, le opere degli artisti, gli animali fantastici di Kiki Smith, i miei lavori, e poi invitai i bambini a disegnare quel che avevano visto. E con i disegni appesi alle pareti abbiamo fatto una mostra. Una giornata magnifica, indimenticabile! Ma alla sera, quando i piccoli tornarono dai genitori e dissero che erano stati nella casa magica scoppiò il putiferio. Padri, madri, nonni, intere famiglie furiose andarono ad aggredire il sacerdote che fu costretto a chiamare la polizia. Eppure tutto questo servì a organizzare un’azione di chiarimento, a portare il villaggio al museo e a creare le basi di quello che viviamo adesso. Non credo che i miei vicini siano del tutto convinti di quel che faccio, ma ora non mi considerano più uno stregone pericoloso, si limitano a dire che sono una «persona complicata».

E lei è una persona complicata?
Cerco di essere un uomo libero. Ho voluto far l’artista contro mio padre che si opponeva, contro la mancanza di scuole d’arte in Camerun che mi ha costretto a partire per la Costa d’Avorio, contro la paura di non riuscire a mantenermi con l’arte, perché non ero ricco, ma solo un giovane artista africano di famiglia modesta. E invece eccomi: grazie ai mei guadagni sto persino costruendo un museo-albergo nella capitale Yaoundé, un comodo hotel con camere confortevoli e modernissime accanto a sale espositive, bar e ristorante. Un luogo che diventerà punto d’incontro internazionale al centro dell’Africa.

Pensa che si possa essere liberi come artisti in un sistema dell’arte così rigidamente strutturato da regole di mercato?
Penso si possa essere liberi comunque. Se riesco a creare installazioni illustrando il mio progetto agricolo a Barcellona o al Pompidou o a portare nella Piramide del Louvre i fagotti dei profughi o, ancora, a costruire in una zona di residenze di Ginevra questo «Cammino della speranza» che parla di immigrazione, vuol dire che uno spazio di libertà esiste. Bisogna conservare una libertà mentale e creativa.
«Le pilier des migrants disparus» (2022) di Barthélémy Toguo
E anche tecnica: pittura, scultura, ceramica, scrittura, grafica, disegno... Non c’è limite agli strumenti che lei usa.
Ho avuto la fortuna di frequentare una scuola molto accademica in Costa d’Avorio. Mi insegnavano a disegnare e scolpire copiando i maestri e gli antichi. Un patrimonio di conoscenza tecnica che non ho mai rifiutato anche quando, grazie ad alcune borse di studio, sono riuscito ad arrivare in Europa prima a Grenoble e poi a Düsseldorf dove avevo professori come Immendorf, Penck, Kounellis e Beuys che con il suo attivismo ci costringeva a sviluppare il pensiero. Ci insegnavano ad andare per le strade anziché nei musei, a trasformare l’arte in vita. Anche questa fu una grandissima lezione. Ma non ho mai rinnegato la mia formazione da Beaux-Arts. Si può fare una performance anche sapendo disegnare.

Agli inizi ne ha fatte alcune piuttosto polemiche: presentarsi ai controlli di un aeroporto con una bandoliera piena di lecca-lecca. Imbarcare valigie di legno massello o sedersi a Bruxelles in una carrozza di prima classe di un treno frequentato da diplomatici e politici coi vestiti sporchi da spazzino...
Sì, il treno che andava alla City... Arrivarono controllori che mi volevano far scendere. Ma io avevo il biglietto e mi sono opposto. Allora chiamarono addirittura la polizia, ma alla fine mi hanno dovuto lasciar lì. Queste azioni erano messaggi espliciti per denunciare il razzismo e il classismo, ma si può fare la stessa cosa con la ceramica, il legno e la carta. Io credo che la potenza creativa dell’arte riesca a mostrare i problemi della nostra società con qualsiasi mezzo. E se ho voluto così caparbiamente diventare artista è perché fin da giovane ho fatto mie le parole che Albert Camus pronunciò nel ricevere il Nobel. Quando disse, tra l’altro, che «l’arte non è gioia solitaria: è un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti». Discorso bellissimo, si trova su Google. Lo legga.

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