I Buddha distrutti: i talebani ora sembrano pentiti?

Il Governo a Kabul rilascia segnali di voler favorire la conservazione del patrimonio tangibile compresi i monumenti preislamici. Ma oppositori interni ed esigenze primarie (anche a causa delle sanzioni) potrebbero impedirlo

Stupa buddhista di Shewaki, III-I secolo a.C., attualmente in restauro con l’appoggio ufficiale del Governo talebano
Anna Somers Cocks |  | Kabul

Può darsi che questo articolo urterà le convinzioni di qualche lettore. Non tratta i due temi che hanno dominato i media del mese scorso in occasione dell’anniversario della caduta di Kabul in mano ai talebani: la condizione delle donne in Afghanistan o la barbara «alterità» dei talebani, un’impressione fissata nella nostra mente dall’esplosione dei Buddha di Bamiyan nel marzo del 2001. L’articolo riguarda invece il fatto, inatteso, che l’Emirato islamico dell’Afghanistan (Iea), il Governo talebano al potere dall’agosto 2021, starebbe mostrando segnali di rispetto per i monumenti culturali afghani, compresi quelli preislamici, dichiarandosi consapevole della loro importanza per il Paese e agli occhi del mondo.

Il 13 marzo al Museo di Kabul si è tenuto un incontro al quale hanno partecipato funzionari del Governo talebano e personale del museo. I lavori si sono svolti in pashtu (insieme al dari una delle due lingue uffciali dell’Afghanistan, Ndr), quindi non si rivolgevano a un pubblico internazionale. Era presente un solo occidentale: il britannico Jolyon Leslie, consulente dell’Afghan Cultural Heritage Consulting Organisation (Achco), istituto indipendente finanziato da donatori internazionali come la Fondazione Aliph. Leslie racconta che nel corso dell’incontro Zabihullah Mujahid, portavoce del Governo, ha espresso rammarico per la mancata protezione in passato il patrimonio culturale; non sono stati citati esplicitamente i Buddha di Bamiyan, ma le azioni intraprese del Governo fanno pensare che si riferisse proprio a loro.

Leslie riferisce che, pochi giorni dopo, il viceministro della Cultura Mawlawi Aliqullah Azizi ha visitato Shewaki nella parte orientale di Kabul, il secondo stupa buddhista più grande dell’Afghanistan, attualmente in restauro da parte dell’Achco. Azizi si è seduto con gli artigiani afghani che vi lavorano, conversando con loro sul significato del monumento. Il ministro, prosegue Leslie, si è poi detto felice di continuare a garantire il sostegno del Governo a questo sito buddhista.

Jolyon Leslie, architetto specializzato nella conservazione, conosce a fondo l’Afghanistan. Vi risiede infatti dall’inizio degli anni ’90, lavorando per le Nazioni Unite dal 1996 al 2000, sotto il primo regime talebano, e gestendo poi il locale programma dell’Aga Khan Trust for Culture. Viaggia molto nel Paese e parla correntemente il dari. A suo avviso l’interesse dei membri del Governo va oltre la conservazione fisica dei monumenti: sono affascinati dal passato preislamico dell’Afghanistan e hanno chiesto all’Achco di lavorare su altri siti buddhisti e di fornire traduzioni in dari e pashtu dei testi disponibili.

Tutto questo stride con l’articolo del 7 luglio di «Foreign Policy» che accusa i talebani di aver permesso il saccheggio del sito dei Buddha di Bamiyan e la costruzione di edifici incongrui proprio davanti alle nicchie ormai vuote. Secondo Leslie l’autore dell’articolo non conosceva la lunga storia di interventi inappropriati nella valle e «sebbene l'aspetto del nuovo bazar sia preoccupante, è probabilmente il risultato del desiderio delle autorità attuali di far vedere che stanno facendo qualcosa. L’Unesco ha speso una fortuna negli ultimi decenni per elaborare piani regolatori per la valle, senza avere ben chiaro come questi possano essere effettivamente realizzati. È interessante la rapidità con cui ha preso le distanze dall’ultima violazione del masterplan, dopo aver ignorato il lucroso e illegale sviluppo della valle negli ultimi decenni da parte della famiglia dell’ex governatore, Habiba Sarobi».

«Molti crimini, prosegue Leslie, vengono attribuiti ai talebani ingiustamente. Ad esempio, i politici afghani precedenti e i loro sponsor occidentali hanno diffuso il mito che le collezioni del Museo di Kabul fossero state distrutte e saccheggiate dai talebani, laddove la responsabilità della distruzione nel 1993-94, ben prima quindi dell’ascesa dei talebani, erano da attribuire ai combattenti fedeli ai leader mujahidin, trasformatisi in politici dopo il 2001 [quando i talebani sono stati cacciati dall’alleanza occidentale, Ndr]. Nel 2001 alcuni fanatici talebani in effetti hanno danneggiato oggetti buddhisti e nuristani della collezione, afferma, ma su scala molto più ridotta e senza scopo di lucro».

Un alto funzionario dell’Aga Khan Trust ha confermato l’attuale interesse dei talebani per la conservazione. Il personale dell’Aga Khan Trust, riferisce, sta perlustrando il Paese per documentare i siti e fino ad ora non ha registrato alcuna distruzione deliberata: «I talebani sono intelligenti e sanno che cosa interessa agli occidentali. Hanno imparato la lezione dei Buddha di Bamiyan e già prima di prendere il potere nel 2021 erano favorevoli alla protezione del patrimonio tangibile». Saccheggiatori e scavatori clandestini vengono puniti, come nel caso degli arresti (confermati il 7 aprile da fonti del Governo citati sul profilo Facebook dell’Aga Khan Trust) compiuti nel sito ellenistico e kushano di Zargar Tepe nella provincia di Balkh.

I talebani si trovano tuttavia in una condizione di equilibrio precario, con alleati spesso in disaccordo tra loro, cosicché quanto deciso a Kabul non sempre viene poi rispettato in tutto il Paese. Inoltre il Governo deve fare i conti con le manovre destabilizzanti dello Stato Islamico della Provincia di Khorasan (Iskp). Affiliato dell’Isis, l’Iskp non vede di buon occhio i tentativi del Governo talebano di normalizzare l’amministrazione del Paese e di praticare una relativa tolleranza religiosa, e si fa sentire con azioni terroristiche, come la devastante esplosione di metà agosto in una moschea sufi a Kabul.

Nessun Paese del mondo finora ha riconosciuto il regime talebano, che tuttavia vuol dare prova di sapersi evolvere da forza di guerriglia in un’organizzazione capace di esercitare le moderne funzioni di Governo. Il rifiuto mondiale incide su tutti gli aspetti della vita e comprende quelli culturali. Il Giardino di Babur a Kabul, ad esempio, risalente all’inizio del XVI secolo e negli ultimi vent’anni oggetto di restauri dall’Aga Khan Trust for Culture in Afghanistan, con le sue rose, i suoi padiglioni, i suoi canali d’acqua e le sue cascate è l’unico esempio superstite degli inizi della tradizione persiana e timuride.

Si tratta di un sito di grande bellezza aperto a tutti in una città di per sé poco accogliente, frequentato da 400mila afghani ogni anno, con il pieno consenso dei talebani. Nel 2009 era stata presentata all’Unesco la domanda per ottenere la nomina di Patrimonio dell’Umanità, ma l’iter non è proseguito perché il Governo di allora non poteva garantire che intorno al giardino non ci sarebbe stata speculazione edilizia.

Attualmente l’ostacolo più grande è che un riconoscimento può essere concesso solo a uno Stato membro e, finché il Governo talebano non sarà riconosciuto, la richiesta non potrà avere seguito. Inoltre i talebani stanno cercando di gestire un Paese la cui economia è quasi crollata a causa del ritiro degli aiuti occidentali e delle sanzioni economiche imposte per non aver mantenuto le promesse, soprattutto sui diritti delle donne. Vaste aree del Paese soffrono di grandi privazioni, il che significa che i talebani devono compiere scelte difficili, come a Mes Aynak, dove i cinesi progettano estrazioni nei ricchi giacimenti di rame.

Mes Aynak, però, è anche un sito buddhista di 5,5 ettari e ci si chiede che cosa deciderà il Governo: incassare valuta di cui ha disperatamente bisogno o conservare il patrimonio del passato? Non ci potrebbe essere migliore esempio di come il destino del patrimonio mondiale si intrecci con la politica e di come l’assenza di informazioni dettagliate sulle realtà di una qualsivoglia situazione possa consolidare gli stereotipi e una pericolosa riluttanza a promuovere il dialogo.

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