Il «genio» secondo Diane de Beauvau-Craon

L’amica intima di Andy Warhol e Robert Mapplethorpe ha appena pubblicato per Grasset, «Sans départir». Motto dei Beauvau-Craon

Diane de Beauvau-Craon alla Certosa di San Martino, davanti al Vesuvio © Robert Mapplethorpe
Carole Blumenfeld |

Grazie alla sua famiglia, lei è nata all’insegna del bello…
Si, potremmo addirittura dire all’insegna della perfezione: il XVIII secolo. Avenue Foch, da mio padre dove siamo cresciuti sia io sia mia sorella; al castello di Haroué a sud di Nancy costruito da Germain Boffrand, dove si trascorreva ogni anno il mese di luglio e persino dalla mia nonna paterna, per metà italiana e per metà americana, che viveva vicino a Bologna, sono rimasta circondata dalla vena più pura del Settecento. Era la cosa più naturale e normale per me al punto che non mi ponevo domande.

Forse mancava la curiosità. Il XVIII secolo scorreva nel sangue di mio padre che amava solo quello, sicuramente per il legame stretto con Haroué, il castello di famiglia, che era la sua prima grande passione. Paradossalmente, si mostrava molto aperto di vedute nel modo di vivere, di essere, nell’accettarci così come eravamo.


Nel suo libro, lei descrive «il più bizzarro dei balletti». Quando andavate a trovare la nonna materna, María de Borbón y Bosch-Labrús, in place des Vosges, vi faceva fare il giro dell’appartamento fustigando vostro padre e il suo esercito di avvocati. «Ogni mobile di qualità che lo decorava era marcato da un sigillo in cera rossa». E qualche tempo dopo, ritrovaste presso il nonno, Antenor Patiño, gli stessi mobili senza sigillo.
Il loro divorzio è stato uno dei più lunghi della storia: è durato ventidue anni! E i mobili antichi furono proprio il fulcro di questa battaglia. In famiglia non si parlava mai di soldi e così i mobili divennero una moneta di scambio. Mio nonno che come mio padre adorava il XVIII secolo, voleva assolutamente recuperare alcuni oggetti che non avevano ragione di stare dalla nonna.

Era proprio una specie di valzer dei mobili. Bisogna tener presente che negli anni 1950-1960 i mobili antichi valevano una fortuna ed erano motivo di un prestigio sociale ostentato. Ai quattro angoli del pianeta, i nuovi ricchi, milionari americani del petrolio o armatori greci, si servivano delle loro collezioni per darsi un tono in società.

Le vendite organizzate a Palais Galliera in dicembre e maggio-giugno erano i luoghi d’eccellenza per l’élite degli Arturo López, Antenor Patiño et Stavros Niarchos o Charles Wrightsman, un po’ come le fiere contemporanee oggi. Una parte delle collezioni di mio nonno è andata smembrata proprio nelle vendite Galliera nel 1975, poi nel giugno del 1976 e ancora nel giugno 1977.

Ma la parte più consistente fu venduta a New York dopo la sua morte, nel novembre del 1986. Se si ricostruiscono pezzo a pezzo i cataloghi di vendita, si resta impressionati così come di fronte agli interni della casa in rue d’Andigné, nel 16mo Arrondissement di Parigi. Aveva delle sedie di Nicolas Heurtaut, tra le più belle del XVIII secolo, che sono finite al Louvre. Ha donato alla reggia di Versailles un armadio in lacca rossa con marchio Bvrb, un capolavoro!


Che cosa deve a questi due appassionati di XVIII secolo, suo padre e suo nonno?
Nonostante la separazione dei miei genitori, l’intesa fra mio nonno materno e mio padre è rimasta intonsa. A differenza mia, Antenor Patiño non nacque nel mezzo, ma fu una di quelle persone fortunate capaci di inserirsi bene e aveva un occhio eccezionale. Per molto tempo, chiese consigli all’antiquario Marcel Bissey e talvolta a Maurice Rheims. Gabrielle Chesnier-Duchesne era una dei suoi antiquari preferiti.

Mentre con i decoratori cambiava spesso: Georges Geffroy a Parigi, Valerian Rybar e Jean-François Daigre in Portogallo e più tardi François Catroux a New York. Mio padre chiamava il grande decoratore Henri Samuel. Era molto vicino anche a una personalità meno nota del mercato dell’arte, il mercante e collezionista Claude Sère.

Diane de Beauvau-Craon da bambina © Diane de Beauveau-Craon
Né mio padre né mio nonno mi hanno spiegato il valore di ciò che ci circondava. Sapevo che mio padre aveva dei bei mobili poiché compiuti dieci anni, voleva che le sue due figlie scendessero a salutare gli invitati e dunque sentivo i discorsi degli adulti. Non mi hanno mai istruito ma mi hanno trasmesso la passione, aiutandomi ad allenare l’occhio al bello.

Oggi in un sala d’aste e senza guardare i cartellini, vado direttamente verso il mobile più pregevole, anche se non il più appariscente. Ho inconsciamente sviluppato una sorta di orgoglio nella mia ignoranza, e se mi getto su un pezzo di Charles Cressent o Bernard Molitor è grazie al mio occhio più che alla mia erudizione. I mobili del XVIII secolo incarnano l’equilibrio perfetto delle forme e delle proporzioni, un po’ come delle sculture classiche. La loro prossimità ha senza dubbio aperto in me delle prospettive dai risvolti ancora insondati.


Che cosa deve a sua suocera, Laure de Beauvau-Craon, sorella dello scultore Guy de Rougemont, che si è adoperata per porre fine al monopolio dei banditori francesi e che ha lanciato Sotheby’s in Francia, casa di cui è rimasta presidente onoraria fino alla sua morte nel 2017?
Avevamo un rapporto bellissimo. È entrata nella vita di mio padre quando avevo 15 anni. Mi ha insegnato molte cose, ma non esattamente riguardo a come si debba guardare un’opera d’arte. Amavo il suo gusto eclettico, che non sospettavo mentre era in vita mio padre. Aveva uno spiccato senso per il mélange e mi ha sorpreso con l’acquisto di alcune opere della serie «Transsexuels» di Andy Warhol o commissionando un divano a Claude Lalanne.

In realtà, la persona che ha forgiato il mio sguardo e a cui sono grata è Alexandre Pradère, quantunque egli mi reputi un caso disperato! È davvero l’«ultimo caposaldo» del sapere, lo rispetto e lo ammiro al di sopra di ogni cosa. Mi ha sicuramente spiegato che cosa fosse il Settecento meglio di tutta la mia famiglia messa insieme.


Ciononostante, lei ha venduto i suoi mobili stile XVIII da Sotheby’s!
Li trovo magnifici ma vivo nel mio tempo. Abitare con pienezza nel XVIII secolo implica avere un appartamento, una casa, un castello che supporti la ricchezza del mobilio, il servizio, la tavola, le tovaglie. Non sono convinta che questo stile si adatto al maniera di vivere attuale. A Napoli, dove vivo, possiedo quadri italiani e fotografie. Amo moltissimo anche i mobili di André Dubreuil.

Era un grande artista e il suo mobilio ha lasciato un segno nel Ventesimo e Ventunesimo secolo. Sono rimasta scioccata dalla sua scomparsa recente e inosservata. Apprezzo anche le prime creazioni di Herve Van der Straeten che fa lavorare gli ebanisti all’antica. Ho la fortuna di possedere uno dei suoi primi oggetti a me donati personalmente. E poi amo Warhol.


Come spiega per l’appunto la partenza dal nido famigliare compiuta la maggior età?
Quando trascorrevo le mie estati in Portogallo, nella Quinta Patiño, un’immensa proprietà tra Estoril e Sintra, circondata da un centinaio di domestici, non ero idiota al punto da considerare quella la quotidianità di tutto il resto del mondo. Io e mia sorella eravamo due piccole bambine ben vestite, ben educate e il nostro avvenire era tracciato. Avremmo sposato qualcuno con un buon nome e un bel castello e io mi sarei rotta le palle! Ho capito presto che la vita è una sola e quella vita non l’avrei buttata via. Ero troppo curiosa di ciò che succedeva al di là di un così grande decoro, la vita vera, la libertà.


La vita vera, era al fianco di Andy Warhol a New York?
Sono sbarcata a New York nel 1973. Portavo già l’etichetta di nipote del «re dello stagno», figlia del principe di Beauvau-Craon, settimo principe del Beauvau e del Sacro Impero, io stessa principessa. Questo mi ha aperto molte porte. Si aspettavano una bambina viziata che si prendeva sul serio ma hanno capito che ero pronta a sbaragliare con un colpo di mano tutto ciò che rappresentavo.

Andy è rimasto colpito dalla libertà assoluta che professavo, dal mio fare tutto e il contrario di tutto, dal mio arrivare alla fine di ogni azione intrapresa. Nel corso della mia vita ho sicuramente attratto gli artisti per la mia naïveté: sanno che non faccio parte né della loro corte né della loro clientela, con la quale devono fare degli sforzi. Sono creature sensibili, che fanno fatica a trovarsi a loro agio nel mondo esterno. Sono sempre all’erta e conoscono raramente amicizie semplici e profonde. Non volevo essere amata per quello che incarnavo ma solo per me stessa: questo avevo in comune con Andy.


Credo che per lui rappresentassi una specie di cartone animato. Ho avuto fortuna perché mi ricopriva di regali per dimostrarmi il suo affetto. Un giorno, al rientro da un pranzo alla Casa Bianca, il presidente Jimmy Carter gli aveva dato un paper bag con del burro di arachidi; il presidente era Mr. Burro di arachidi e la borsa era piena di dolciumi prodotti dalla società di famiglia. Andy aveva svuotato la borsa, l’aveva firmata e trasformato la sua sigla lasciandola presso il portiere di casa mia. Ho capito che con quella borsa stava stringendo amicizia con me. L’ho incorniciata e poi stupidamente perduta durante un trasloco. Ce l’ho sempre nella testa e nel cuore: mi appartiene quella borsa.

Andy mi proteggeva dai miei eccessi e mi sgridava anche. Potevo chiamarlo a tutte le ore quando cadevo, e facevo di tutto per cadere. Sapevo di poter contare su di lui e su Robert (Mapplethorpe, ndr). Grazie a loro non mi sono mai sentita persa o sola a New York. E quando avevano dubbi, non riuscendo a esprimersi con la loro arte come volevano, io anche ero lì per loro.
Diane de Beauvau-Craon a New York © Robert Mapplethorpe
Ma Warhol era già Warhol…
Sono arrivata a New York nel 1973 e sono partita per il Marocco nel 1978,
Warhol non capiva le ragioni che mi spinsero a partire, proprio dopo il lancio della mia linea di alta moda. In quegli anni, nutriva un immenso bisogno di riconoscimento. Molta gente diceva che la sua arte non era niente di che e lui ne soffriva enormemente. Cominciava allora a lavorare sulla serie dei transgender e transessuali, troppo poco conosciuta oggi nonostante valga una fortuna. Andy era un visionario.

Come per tutte le persone dotate di genio artistico, c’è uno sbandamento quando finisci un’opera monumentale per iniziarne un’altra. Dimentichiamo che egli ebbe una fortuna assai tardiva.
Ci siamo sempre frequentati. Ho fatto un viaggio fulmine a New York ma lo vedevo soprattutto a Parigi dove veniva spesso. Benché fosse sempre circondato da uno sciame d’api, volevamo del tempo per nutrire la nostra sete l’uno dell’altra.

Lei ha conosciuto gli amici più stretti di Andy Warhol?
Ho incontrato attraverso di lui Jean-Michel Basquiat, ma non ci siamo capiti. Era estremamente tormentato, cercava ancora se stesso e Andy mi aveva presentato come una principessa disgiunta che viveva in un altro mondo, cosa che non gli piacque.

Però ho visto spesso Robert Rauschenberg. Andy era sempre molto pudico, parlava poco ma in confronto a Robert era quasi esuberante. Rauscehberg era posseduto dalla sua arte, tutto ciò che stava al di fuori non lo interessava. Viveva nella sua bolla in modo sconcertante. Lungi dall’essere antipatico, poteva sedersi accanto a me senza che me ne accorgessi. Mi ha dato l’impressione che amasse essere visibile solo attraverso la sua arte.


E poi c’era Robert Mapplethorpe…
Andy mi aveva detto con la solita spontaneità:
«La prossima copertina d’"Interview", (la sua rivista, ndr), è dedicata a te». Ebbe un’illuminazione. Bisogna dire che avevo allora un coraggio enorme. Domandò la copertina a Christopher Makos, la sola che ritoccò di persona. Nel numero, c’erano delle fotografie a me scattate da Robert, un giovane fotografo debuttante.

Avevamo molto in comune. Aveva appena rotto con Patti Smith, un momento difficile della sua vita. Eravamo come adolescenti senza briglie, e ci cercavamo. Amavo il suo lato vivo, come metallo liquido, e lui amava il mio lato metà uomo, metà donna. Instaurammo un’amicizia amorosa e andammo persino a convivere per qualche mese. Mi ha fatto scoprire la fotografia, la sua immensità e la sua esigenza.

Grazie a lui, conobbi il celebre collezionista Sam Wagstaff che era suo mentore, suo amico e suo amante. Molto prima che la fotografia fosse riconosciuta come arte, aveva una collezione di pellicole monumentale.


Utilizza spesso la parola «genio». Che cosa significa questo termine per lei?
Il genio sta nell’intensità della creazione. Penso spesso al viso di Robert Mapplethorpe e a come s’illuminava quando teneva  una macchina fotografica fra le mani. Si fondevano al punto che era impossibile distinguerli. Un atto d’amore indescrivibile.

Robert viveva una seconda vita attraverso la sua arte. Era abitato dal desiderio di fotografare, di creare e penso che fosse l’unico luogo dove si sentisse in pace con se stesso. Sempre in bianco e nero, perché lo scatto viveva attravreso la luce. Mi piazzavo in un angolo del suo loft e guardavo qualcuno che ondeggiava attorno alla sua arte e creava qualcosa di straordinario. Non so se ne era cosciente.

Diane de Beauvau-Craon © JF Paga
In fin dei conti, lei e Karl Lagerfeld condividevate lo stesso gusto familiare per il XVIII secolo assieme a quello più spiccatamente newyorkese. Vi siete incontrati grazie a un personaggio prustiano, Jacques de Bascher.
È un’osservazione divertente. Jacques de Bascher sembrava uscito da una stampa del XIX secolo. Metà angelo, metà demone. Avevamo in comune una naïveté assoluta. Non riconoscevamo il male e a un tratto il male si è impadronito di Jacques e io, per miracolo dello Spirito Santo, mi sono salvata. Jacques amava provocare.

Voleva solleticare Karl mentre io no perché non avevo per niente voglia di essere solleticata. Secondo me, Jacques aveva paura di perdere Karl e allora faceva delle stupidaggini per attirasri la sua attenzione. Ho trascorso molto tempo con Karl quando Jacques si è ammalato. Una volta lasciati Chanel, Fendi o KL, non parlava di chiffon. Era interessato da tutto. E io amavo quel lato.

Camminavamo per le librerie e gli antiquariati, il XVIII e il design, animati da una stessa curiosità. Karl era musicologo e letterato ma non intellettuale. Per rispondere alla sua domanda, il punto che accomunava mio padre e Karl non era la collezione ma l’opulenza con cui convivevano con essa: i velluti di seta maginifici, le guarniture sontuose, le lacche…

Traduzione di Mariaelena Floriani

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