Il libro d’arte secondo José Alvarez

Con un catalogo di 400 titoli, e pubblicazioni diventate ormai dei classici della letteratura artistica internazionale, l’editore festeggerà l’anno prossimo i 45 anni delle Éditions du Regard

José Alvarez © Jérémie Nassif
Stéphane Renault |  | Parigi

Qual è stato il suo primo shock estetico?
Fu uno shock architettonico: la scoperta della cattedrale di Burgos in Spagna mentre viaggiavo con mia madre. Dovevo avere circa cinque anni ma ricordo l’episodio come se fosse ieri. Ero meravigliato. Di certo se fossi cresciuto a Parigi sarei rimasto impressionato da Notre-Dame. Ma Burgos appartiene a un’altra dimensione. È di una forza e di una severità inaudite che si stemperano nella sua sobrietà. Vi sono ritornato spesso in seguito. Un altro shock d’impatto architettonico fu quello romano, a dieci anni. Per finire, l’Atomium a Bruxelles dove sono andato con la scuola. Una forma di eclettismo che ho conservato.

Lei ha fondato la sua casa editrice nel 1978. Come è nata questa avventura?
È accaduto dopo un lungo periodo trascorso a viaggiare. Ero innamorato di una donna e mi preoccupavo relativamente poco dell’avvenire. Quando ella morì nel 1977 fu un duro colpo. Mi sono detto: «E ora che faccio?». Ero un cinefilo e ho a lungo esitato tra l’editoria e il cinema lavorando anche per Flammarion. Allora, ho redatto una lista ideale dei libri che volevo pubblicare su artisti francesi, almeno nei primi tempi. La collezione si chiamava «Artistes méconnus à reconnaître» («Artisti sconosciuti da riconoscere», ndr). Mostrai la lista a Charles-Henri Flammarion. Nella sua casa editrice non c’erano libri d’arte all’epoca, il primo è stato Matisse di Pierre Schneider (1984). Ho deciso di creare la mia propria casa editrice dove pubblicai nei primi anni le opere di questa famosa lista.

Quale è stata la prima pubblicazione?
Un libro dedicato a Mariano Fortuny, artista, stilista e creatore di tessili nato in Spagna nel 1871 e morto in Italia nel 1949, che curiosamente non era marcato sulla mia lista! Andavo sovente a Venezia ed ero affascinato dal suo palazzo e il luogo era sublime. Abbiamo fatto tre o quattro trasferte con un fotografo e delle modelle stupende. Era un’epoca in cui si faceva esattamente ciò che si aveva voglia di fare in una maniera lussuosa e dilettantesca. Potevamo lavorare con chi volevamo e come volevamo.

Les Éditions du Regard hanno costruito la loro fama sulla qualità editoriale e iconografica. Si trattava di una priorità all’inizio?
Certamente. Non si può pretendere di parlare degli artisti e del loro lavoro senza rappresentare al meglio le loro forme. La forma ha tanta importanza quanta ne ha la sostanza. Un libro non può essere mal stampato. Mi rattrista constatare la tendenza attuale a spendere sempre meno. Cerco di mantenere l’eccellenza conservando anche la qualità testuale. Ciò che fa un libro d’arte è la qualità plastica, estetica da un lato e il testo dall’altro.

Lei è noto per un’immagine da esteta che aspira all’eccellenza che pubblica libri eleganti, intelligenti e spesso un po’ elitari. È un’eccezione nell’universo delle edizioni dove ci sono sempre meno libri…
Le opere definite elitarie sono in realtà diventate dei classici, anzi non sono più nemmeno considerate come tali. Abbiamo aperto una linea editoriale e la maggior parte dei libri sono stati duplicati in seguito. Abbiamo inaugurato un tipo di edizione che prima non esisteva. Quando ho creato la casa editrice, bisognava ben che facessi qualche cosa della mia vita inoperosa, c’era Skira in declino, «L’Univers des formes» di Gallimard, che pubblicava un libro di alto livello ogni quattro anni, Flammarion che debuttava con bei libri e Mazenod le cui opere erano meravigliose, ancora le conservo tutte. In Inghilterra c’era Studio Vista, Phaidon, Thames & Hudson; negli Stati Uniti, Abrams e Rizzoli; in Italia, Electa… Con alcuni di questi editori in seguito abbiamo anche realizzato delle coedizioni.

Da dove viene il suo buon gusto per i libri?
Volevo studiare storia e da piccolo amavo particolarmente le enciclopedie. Sono originario di Santander ma in famiglia possedevamo una proprietà vicino a Siviglia dove andavamo spesso. C’era una biblioteca con portoni a griglia; ho commissionato ad Andrée Putman delle copie identiche per gli uffici delle Éditions du Regard. Mi è stato raccontato che mi addormentavo sempre su una poltrona con enciclopedie più grandi di me appoggiate sul petto, sugli animali, la storia naturale, la geografia…

Lei ha pubblicato delle opere di riferimento sull’Art Déco, delle monografie consacrate a Jean-Michel Frank, Pierre Chareau, Jacques-Émile Ruhlmann e la famosa collezione «Décennies» di Anne Bony. Da dove è nato questo interesse per il design, la decorazione e l’architettura?
I primi libri delle Éditions du Regard sono stati effettivamente dedicati a nomi relativamente sconosciuti. C’era voglia di far conoscere ai francesi il loro patrimonio immobiliare, artistico e culturale… Non volevo fare l’ennesimo Van Gogh. C’era forse un certo dandysmo. Sono stato rimproverato di essere un po’ snob ma in realtà sono una persona seria. Non ho fatto calcoli e tutto è scaturito dagli incontri fatti naturalmente. Un amico americano mi raccontò la storia di Jean-Michel Frank che si è suicidato per amore. Il punto di partenza è stato accedere a un ricco apparato iconografico negli archivi dell’atelier Chanaux. Per Pierre Chareau fu un contatto chiave Marc Vellay, erede degli archivi familiari.

Ha sempre alimentato la prossimità agli artisti, al primo posto Anselm Kiefer. Come è avvenuto il vostro incontro?
Uno dei più grandi piaceri per un editore è stringere legami con gli autori e gli artisti mentre sono viventi. Ho incontrato venticinque anni fa Anselm Kiefer a Marrakech. Rientrava da un servizio fotografico fatto nel deserto marocchino. Lui e sua moglie si annoiavano all’Hotel La Mamounia: sono venuti a prendere il tè e poi ci hanno reinvitati il giorno dopo. Non ci siamo mai più lasciati. Ero interessato alla sua arte da molto tempo: artisti di questo calibro non hanno alcun dialogo con i mercanti. Pablo Picasso, che poteva essere terribile, era in stretti rapporti con Daniel-Henry Kahnweiler. Un artista ha sempre bisogno di confrontarsi con uno sguardo diverso dal suo, soprattutto nei periodi di intensa creazione. È accaduto con Anselm che s’instaurasse proprio questo tipo di scambio anche senza parole, una cosa assai rara. Considero gli artisti come dei mostri: più sono mostruosi più li amo! I loro universi fantasmagorici sono tanto potenti che arrivano a inglobarti. Sono spessissimo creature colte legate a doppio filo alla storia, alla natura e alla letteratura. Ammiro il lavoro di Fabrice Hyber, Gilles Barbier e Jean Degottex che è stato anche un grande amico.

Moltissimi sono i libri pubblicati su Anselm Kiefer. E tra tutti, un testo magistrale di Daniel Arasse, storico dell’arte noto per il suo occhio sull’arte italiana. Quale la genesi di quest’opera?
Daniel Arasse aveva già redatto un piccolo testo su Anselm per una mostra. Cominciava a scrivere per la stampa anche articoli su artisti contemporanei come Cindy Sherman. Abbiamo dunque pubblicato una raccolta di suoi testi divenuta introvabile sulla pittura italiana, Désir sacré et profane. Le corps dans la peinture de la Renaissance italienne, 2015 e anche un altro testo sul XVIII secolo, L’Expérience du regard au siècle des Lumières, 2017. Glielo promisi poco tempo prima della sua tragica scomparsa nel 2003. Il suo incontro con Anselm fu bellissimo e il libro in sé è capitale. È un’opera su commissione perché bisognava smetterla con quest’idea del «nazillon» («nazistino», ndr). Alcuni dicevano all’epoca che fosse un terreno minato… Come al solito in Francia si dicono tante cose. Il libro ottenne negli Stati Uniti il Premio Pegasus, una cospicua somma che ha permesso a Daniel Arasse di comprare una macchina medica una volta toccato dalla terribile sindrome di Charcot. Il gusto francese piace all’estero dove i nostri libri hanno spesso più successo che in Francia. Nel mondo anglosassone gli editori mi chiamano «Monsieur Regard», molto buffo no?

È stato commissario dell’esposizione di Anselm Kiefer al Grand Palais per Monumenta 2007. Quale ricordo serba di tale esperienza?
Terribile! Olivier Kaeppelin, delegato alle Arti Plastiche (al Ministero della Cultura e della Comunicazione) ha realizzato un’idea di Dominique de Villepin ripresa poi da Renaud Donnedieu de Vabres. Ha pensato ad Anselm e voleva conseguentemente che me ne occupassi io visto che conoscevo bene la sua opera. È stato un piacere collaborare con lui ma presto mi sono reso conto che i professionisti della cultura lavoravano più per loro stessi che per gli artisti. Non hanno capito che senza gli artisti non avrebbero ragione di esistere! È stato complicato con le istituzioni e il ministero. Dopo aver visto tutte le altre edizioni di Monumenta, penso che la nostra sia la più riuscita. L’opera di Richard Serra era straordinaria ma lui stesso ha riconosciuto che è stata sopraffatta dall’architettura del Grand Palais. Era più un’opera da esterni. Quella di Anish Kapoor era anche molto bella. La andai a visitare con Jean de Loisy ma essendo claustrofobico non sono potuto penetrare fino in cima alla scultura. Da sotto, sembrava un enorme fungo velenoso, tanto grande da far esplodere la cupola! Ho amato anche l’installazione di Christian Boltanski. Non tanto l’«aspetto Benetton», un po’ così, ma i battiti cardiaci al suolo nella penombra. Era commovente.
«Nagfar» (1998) di Anselm Kiefer nell’ufficio des Éditions du Regard con la gatta Rosa. Foto di José Alvarez
Oltre ai titoli che hanno abbracciato il XX secolo attraverso l’arte, la moda, la fotografia e le arti decorative lei ha creato nel 1993 una collezione dedicata all’arte classica in cui figura anche il Caravaggio di Roberto Longhi. Con quale obiettivo ha concepito la collezione?
La mia cultura era classica. Ho conosciuto un uomo scomparso a 36 anni, Padre Patrick, un prete ortodosso, filosofo, filologo, di un’intelligenza rara. Io, che ero ateo, amavo molto parlare con questo figlio di un’amica che trascorreva le sue giornate in Biblioteca Nazionale, in rue de Richelieu. Veniva sempre alla mia scrivania ed eravamo allora a due passi, rue du Mail. Éric Hazan, grande amico e professionista, era il solo editore d’arte che rispettavo a Parigi. Quando mi veniva un’idea editoriale sull’arte classica gliela passavo. Volevo mantenermi fedele al XX secolo. Un giorno gli suggerii di pubblicare un libro su Giorgione e poi mi dissi che lo potevo fare anche io. Avevo una casa a Venezia e così creai Lagune. Ho lanciato questa casa editrice per Padre Patrick. Abbiamo editato Giorgione. Peintre de la «brièveté poétique» di Jaynie Anderson (1996), un libro capitale, che durerà degli anni. La critica americana fu incredibile. In Francia, nulla di nulla.

Le si deve una biografia su Helmut e su June Newton, amici a lei cari. In quale contesto vi siete conosciuti?
Ci siamo conosciuti nel 1968. Stavo cenando con degli amici a La Grille Montorgueil (nel secondo Arrondissement) un vero bistrot parigino d’anteguerra, allora formidabile. A un tratto arrivarono. Erano andati a fotografare le barricate sulla rive gauche. Helmut, impressionato dalle Crs (Compagnies Républicaines de Sécurité, ndr) con i loro caschi a libellula, diceva che era una piccola rivoluzione alla francese, tanto carina, ma che non sarebbe andata molto lontano… In Germania aveva visto la Notte dei Cristalli. Ci siamo rivisti in seguito. Helmut mi credeva un piccolo snob parigino ma con June ci siamo intesi alla perfezione. Mi ha invitato a cena e siamo diventati molto amici. In seguito, ho fatto delle fotografie con una piccola macchina che Helmut mi ha regalato.

Ha conosciuto da vicino anche Cy Twombly. Come lo ricorda?
Un privilegio aver conosciuto Twombly come artista e come uomo. Di tutti gli artisti del Novecento lui è stato l’assoluto. Se fossi nato artista, mi sarebbe piaciuto essere come lui. La sua opera si gioca fra scrittura, spontaneità, sensualità, derisione, gioco. Un alimento completo. Volevo fare un libro con lui, ho molto tentato ma si proteggeva. Una volta diventati amici è stato favoloso. Un giorno alla sua mostra del 1984 «Oeuvres de 1973-1983» al Capc di Bordeaux lo incontrai e parlammo italiano. Poi l’ho rivisto a Barjac da Kiefer dove abbiamo trascorso un weekend insieme. Gli ho detto che volevo fare una monografia su di lui. Ci siamo rivisti a Napoli in una trattoria dove ha accettato, a condizione di chiamare un autore francese o italiano. Al mio ritorno, avevo sulla scrivania la tesi di Richard Leeman su Twombly e dunque gli proposi di fare il libro con lui. Cy viveva in maniera molto frugale. A Parigi abitava all’Hotel La Louisiane, stanza 13. Quando andavo a trovarlo a Gaeta, in Italia, lavoravamo e poi lui mi portava a mangiare «i migliori spaghetti alle vongole d’Italia» in una piccola capanna sull’acqua. Con i più grandi accade tutto velocemente e nel migliore dei modi.

Quali delle sue opere hanno avuto maggiormente successo?
I «Décennies» di Anne Bony. All’inizio degli anni Ottanta, volevamo solo fare un libro sugli anni Cinquanta. Abbiamo fatto appello a degli autori specializzati in ciascun campo affinché il tutto risultasse solido e abbiamo lanciato il primo volume. È stato un enorme successo! Ai tempi facevo le consegne con la mia Autobianchi: avevo tolto il sedile del passeggero per metterci i libri e il sabato approvvigionavo le Fnac. Ci sforzavamo di presentare novità alla stampa e sempre organizzavamo una mostra all’uscita del libro. Per Fortuny, un’amica veneziana, che aveva una collezione eccezionale, ci aveva prestato delle opere. C’erano Yves Saint Laurent, Bob Wilson, Marie-Hélène de Rothschild, Chantal Thomas… Quando abbiamo pubblicato il Frank, abbiamo organizzato una bella mostra al Passage Verò-Dodat a Parigi seguito da una serata al Privilège, un club situato sotto il Palace con champagne à gogo… Vendemmo cinquecento libri di Frank! Erano gli anni del Palace, dove s’incontravano persone eccezionali. Al compleanno di William S. Burroghs vi ritrovai Christian Bourgois e Brion Gysin. Roland Barthes vi trascorreva il suo tempo. C’erano feste ma in realtà era un luogo altamente intellettuale. Non si parlava di argomenti gravi o complessi, c’era della musica. Il suo proprietario Fabrice Emaer è morto andando in rovina, poiché nella sua generosità faceva di tutto per il benessere dei suoi amici.

Quali libri la rendono più fiero?
Giorgione di Jaynie Anderson, il Bronzino di Maurice Brock, Vhutemas di S. Khan Magomedov, Kiefer di Daniel Arasse, Hélion di Henri-Claude Cousseau, il catalogo ragionato di Jean-Pierre Raynaud fatto da Denyse Durand Ruel… E poi certo la serie «Décennies» di Anne Bony.

Che pensieri le ispira l’evoluzione del mondo editoriale? Il mestiere dell’editore non è forse divenuto un sacerdozio?
Gli editori si sono scavati la fossa a forza di avvicinarsi al «troppo facile» o al «poca cosa». È un po’ come la letteratura. I libri che si vendono ora nelle librerie non hanno alcun interesse. Quella lingua non si può nemmeno considerare francese. E poi quando si guardano i Goncourt, aiuto! L’iconografia dei libri attuali è estremamente povera. Anne Bony andava paese per paese, prendeva appuntamento con i direttori e produceva lei stessa la sua iconografia. Si lavorava con lo stimolo della ricerca, dell’inedito. Queste opere sono fonti infinite. Oggigiorno, un lavoro simile costerebbe una fortuna. La colpa sta nell’assenza di un’esigenza. Abbiamo spesso confuso i bei libri con l’arte di vivere… Fare un libro senza alcun aiuto sarebbe impossibile. E nessun libro si può vendere a più di 50 euro. Trent’anni fa abbiamo pubblicato le prime monografie d’architetto concepite come libri d’artista e all’epoca gli architetti acquistavano moltissimi libri. Attualmente anche questo pubblico non compra più. Sapesse quanti amici collezionisti non hanno nemmeno un catalogo ragionato nelle loro collezioni… Arrivo da loro con dei libri! La mia biblioteca ha più di quindicimila testi per il XX secolo. È terribile vedere che persone che dovrebbero interessarsi ai libri d’arte non li acquistano più. Un grande problema per noi editori. Sono comunque felice di continuare. L’anno prossimo compirò 75 anni e la casa ne avrà 45. Fino a che posso, continuo. Ma in realtà dovrei smettere. Perché devo farmi tormentare dalle difficoltà e dalle strette economiche dopo tante spese sconsiderate per i libri passati? È un esercizio umiliante.

Quale consiglio darebbe a un editore che volesse lanciare la sua casa editrice oggi?
Gli direi di fare altro… Quando ho cominciato non esisteva nulla di simile in Francia per i libri d’arte. Molti editori sono scomparsi. È difficile. Forse è la fine di un’epoca.

Traduzione Mariaelena Floriani

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