La Caritas Romana di Artemisia: tutela o esproprio?

La vicenda dell’opera sequestrata da Dorotheum. Se è lo Stato a sbagliare nel concedere l’autorizzazione all’espatrio, il provvedimento può essere annullato solo con indennizzo

L’opera sequestrata è conservata nei locali gestiti dalla Soprintendenza di Bari
Gloria Gatti |

La «Carità Romana» è un olio su tela (121x147 cm), attribuito ad Artemisia Gentileschi da Viviana Farina, in occasione della mostra Artemisia e i pittori del conte tenutasi a Conversano (BA) dal 14 aprile al 30 settembre 2018 e pubblicata nel volume La collezione di Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona a Conversano, in cui il dipinto compare in copertina. L’autografia dell’opera sarebbe dalla sua presenza nell’inventario dei beni facenti parte della successione del conte Giangirolamo II datata 1666.

L’opera risulta, tuttavia, essere stata regolarmente esportata dai proprietari nel 2019 in forza di un attestato di libera circolazione rilasciato della Soprintendenza di Genova, provvedimento in seguito annullato in autotutela nel 2020, cui ha fatto seguito l’avvio del procedimento per la declaratoria dell’interesse culturale poiché l’attestato sarebbe stato emesso in base ad una «erronea rappresentazione e valutazione dei fattiposti a base della decisione della Commissione consultiva» e,presumibilmente, un ordine di rimpatrio.

Contro tale decisione i proprietari hanno presentato un ricorso avanti al Tar del Lazio nel luglio 2020, su cui non è ancora intervenuta alcuna decisione.
Nella dichiarazione di esportazione era stato indicato un valore dell’opera attorno ai 200 mila euro e data una descrizione del dipinto come «attribuito ad Artemisia Gentileschi e/o Onofrio Palumbo, precedentemente attribuito a Massimo Stanzione», secondo quanto dichiarato un rappresentante di Dorotheum ad Artnet.

A seguito di una segnalazione, pare, pervenuta alla TPC di Napoli, da parte di uno storico dell’arte, l’opera è stata sottoposta a sequestro preventivo in esecuzione di un Ordine Europeo di Indagine (OEI) in esecuzione di un provvedimento di congelamento (freezing) previsto dal Regolamento Europeo 1805/2018, presso la casa d’aste Dorotheum di Vienna, nell’ambito di un procedimento penale in fase di indagini avviato nei confronti dei proprietari dalla Procura della Repubblica di Bari per truffa ed esportazione illegale trattandosi di un’opera di interesse culturale.

Per comprendere la vicenda della «Caritas Romana» di Artemisia Gentileschi (1593-1653) rimbalzata su tutte le testate internazionali bisogna innanzitutto rileggere l’art. 42 della Costituzione della Repubblica Italiana che dispone che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» e la «Carità», bisogna ricordarlo, è un bene mobile di proprietà privata che può diventare un bene culturale solo ed esclusivamente a seguito di un procedimento di verifica e di dichiarazione (artt. 10 e ss del Codice dei Beni Culturali).

Gli indirizzi di carattere generale a cui gli Uffici devo attenersi per la dichiarazione sono stati stabiliti dal Ministero nel D.M 6 dicembre 2017 n. 537 che ha sottolineato espressamente che le decisioni dell’Amministrazione «incidono anche sui diritti della proprietà privata come riconosciuti e garantiti dalla Costituzione» e «occorre porre la massima cura nel formulare un provvedimento restrittivo, evitando giudizi apodittici non sostenuti da una adeguata argomentazione critica e storica. Pertanto, le relazioni a supporto di tale provvedimento devono sempre essere sviluppate in maniera esaustiva, con motivazioni puntuali, riferimenti bibliografici aggiornati, se disponibili, e attraverso l’associazione di più di un principio di rilevanza tra quelli riformulati nei nuovi indirizzi».

Di recente in una conferenza tenuta alla Milanesiana il 27 giugno scorso Vittorio Sgarbi, a proposito della notifica dell’«Ecce Homo» di Madrid ha provocatoriamente sostenuto che il dipinto era stato «usucapionato» (rectius usucapito) dallo Stato spagnolo; i nostri collezionisti, invece, più spesso volgarmente paragonano la temutissima notifica a un esproprio.

E in effetti una risalente sentenza della Corte Costituzionale n. 6 del 1966 aveva stabilito che costituisce «violazione della garanzia di cui all’art. 42, comma secondo, si ha non soltanto nei casi in cui sia posta in essere una traslazione totale o parziale del diritto, ma anche nei casi in cui, pur restando intatta la titolarità, il diritto di proprietà venga annullato e menomato senza indennizzo. Da ciò la conseguenza che è espropriativo l’atto che, pur non disponendo una traslazione totale o parziale di diritti, imponga limitazioni tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà incidendo sul bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio».

E sul fatto che la dichiarazione di interesse culturale, in ragione del divieto di esportazione definitiva, letteralmente polverizzi il valore di scambio delle opere in mani private, limitando il godimento costituzionalmente garantito di un diritto di proprietà senza assicurare alcuna funzione sociale al patrimonio culturale «per notifica» in ragione dell’inaccessibilità delle opere private per la cittadinanza, non vi può essere dubbio alcuno.

Il Codice dei Beni Culturali, infatti, non contiene alcuna norma per cui il privato proprietario di un’opera dichiarata di rilevante interesse storico artistico, debba consentirne la pubblica fruizione ma anzi all’articolo 48 del Codice, in specificazione del principio generale di cui all’articolo 20 (rubricato «interventi vietati»), circonda di cautele il prestito per mostre ed esposizioni, prevedendo che esso sia soggetto ad autorizzazione, rilasciata tenendo conto delle esigenze di conservazione dei beni e subordinata all’adozione delle misure necessarie per garantirne l’integrità.

Occorre premettere, inoltre, che il rilascio dell’attestato o il diniego, con conseguente avvio del procedimento di dichiarazione, la cui ratio è la difesa del patrimonio culturale italiano dal depauperamento conseguente la fuoriuscita definitiva di taluni beni, è subordinato ad una valutazione da parte degli Uffici Esportazione, sentito il competente organo consultivo, che ex art 68 D. L. 42/04 «devono svolgere le funzioni di accertamento e di valutazione tecnico-scientifica preordinate alla decisione attenendosi indirizzi generali, articolati in elementi di valutazione, che rappresentano i principali presupposti o requisiti della cosa esaminata rilevanti ai fini della decisione, e in criteri valutativi, che rappresentano profili interni di dettaglio della disamina relativa a ciascun elemento di valutazione».

L’unico onere chel’articolo 68 impone al richiedente (proprietario,mandatario o esportatore) dell’attestato di libera circolazione è di dichiarare il valore venale dell’opera e che invece «Il compito di identificare correttamente le opere al fine di valutare la possibilità di autorizzarne l’uscita dal territorio dello Stato incombe principalmente sull’amministrazione competente a rilasciare il relativo titolo autorizzatorio, alla quale è istituzionalmente demandata la cura del relativo interesse pubblico alla conservazione del patrimonio artistico nazionale» (TAR Lazio 4 febbraio 2009) e non è corretta l’affermazione dello stesso Tribunale contenuta nella sentenza n. 345 del 19 luglio 2022 ove si afferma che «l’onere dichiarativo della provenienza del bene grava, infatti, sul richiedente l’attestato».

Alla Pubblica Amministrazione, è, inoltre, riconosciuta la purtroppo abusata facoltà di cui agli artt. 21 octies e nonies della Legge 241/ 90, ossia di annullare in autotutela un provvedimento amministrativo dalla stessa emesso «entro un termine ragionevole, comunque non superiore a 12 mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici» ovvero di revocarlo «per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento» ovvero ex art 21 quinquies riconoscendo nell’ultimo caso un indennizzo al privato che risulti danneggiato dal provvedimento revocato in cui ha fatto affidamento.

Nella prassi la scelta della PA ricade, come ovvio, sempre sull’annullamento che non comporta indennizzo. Il potere di annullamento in autotutela di un provvedimento amministrativo impone, in capo alla Pubblica Amministrazione, la precisa individuazione delle ragioni di pubblico interesse sopravvenuti che giustificano l’adozione del provvedimento di secondo grado. Infatti, l’esercizio del potere di autotutela è sì espressione di rilevante discrezionalità tecnica, ma comunque non esime l’Amministrazione di motivare la sussistenza dell’interesse pubblico, valutazione che si ritiene debba essere rispettosa con gli indirizzi di cui al già citato decreto ministeriale stante il «parallelismo» tra i due provvedimenti (il rifiuto dell’autorizzazione all’espatrio dell’opera comporta il contestuale avvio del procedimento per il suo assoggettamento a vincolo).

La Pubblica Amministrazione, per esercitare il potere di annullamento di un provvedimento in autotutela, necessita della presenza di un interesse pubblico che non si identifica con il mero ripristino della legalità violata, bensì richiede ragioni diverse desunte dall’adeguata ponderazione comparativa di interessi coinvolti, con l’obbligo di tener conto delle posizioni consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento tenuto dall’Amministrazione.

Il comma 2 del citato articolo 21 nonies prevede, inoltre, che il termine possa essere, tuttavia, derogato nel caso in cui «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato».

Di recente il T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 21/10/2020, con sentenza n.10702, ha addirittura ritenuto che «il superamento del rigido limite temporale di 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela di cui all’articolo 21 nonies l. n. 241/90 e, quindi, in tema di SCIA, per l’esercizio “tardivo” dei poteri repressivo/sanzionatori di cui al D.P.R. n. 380/2001, condizionato, ai sensi del comma 4 dell’articolo 19 citata legge, agli stessi presupposti di cui all’articolo 21 nonies, è ammissibile, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte in cui il soggetto segnalante abbia rappresentato uno stato preesistente – anche mediante il solo silenzio su circostanze rilevanti – diverso da quello reale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.01.2020, n. 323; TAR Campania, Salerno, sez. II, 4.02.2019, n. 217)».

Pochi giorni fa con sentenza del 19 luglio 2022 n. 345 il TAR del Lazio ha respinto il ricorso presentato contro l’annullamento in autotutela presentato dal proprietario di un’opera esportata nel 2015, poi risultata essere, dopo un restauro del 2019, attribuita a Giorgio Vasari dallo studioso Carlo Falciani e identificata nell’«Allegoria della Pazienza» per la quale in data 6 agosto 2015 era stata autorizzata l’uscita definitiva come opera appartenete «alla scuola italiana del XVI secolo, e raffigurante una figura femminile, con stima di 65.000 euro» e che con atto del 15 novembre 2021, la Direzione generale archeologia belle arti e paesaggio del MIC, venuta a conoscenza di tale circostanza, ha annullato in autotutela l’attestato di libera circolazione, reputando che esso fosse viziato da travisamento dei fatti.

In particolare, a) la mediocre condizione della tela, quando fu presentata all’ufficio esportazione, avrebbe impedito di cogliere la presenza del motto, e quindi di indagare ulteriormente sulla natura del dipinto; b) la colpevole omessa dichiarazione della provenienza del bene da una collezione rinomata.
Nella sentenza si legge, inoltre, «se l’amministrazione fosse stata posta nelle condizioni di conoscere la provenienza del quadro, avrebbe potuto porlo in rapporto con il vescovo di Arezzo, committente dell’Allegoria, e avrebbe negato l’attestato».

In sentenza si è arrivati addirittura a sostenere che l’esportatore è tenuto a fornire «qualsivoglia ulteriore elemento utile alla valutazione dell’interesse culturale, a titolo di “descrizione” della cosa, perché, trattandosi di un’opera d’arte, con ciò si intende con ogni evidenza non già soltanto il substrato materiale dell’oggetto, ma l’insieme delle caratteristiche distintive che lo rendono bene culturale, tra cui la provenienza collezionistica» e che «il limite temporale, ora fissato a 12 mesi, per rimuovere un atto illegittimo in autotutela non opera, qualora, in difetto di responsabilità dell’amministrazione, l’illegittimità sia stata determinata da una falsa rappresentazione di circostanze rilevanti ai fini del decidere, imputabile al dolo o alla mala fede oggettiva del richiedente. Contrariamente a quanto afferma la ricorrente non è invece necessario un “accertamento penale delle circostanze” (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, n. 3940 del 2018)».

Se la vicenda della «Caritas» sia o meno collegata alla vendita del 23 ottobre 2018 della Lucrezia di Artemisia da Dorotheum per€ 1,885,000 (incluse commissioni) di provenienza Giovanni Francesco Gaetano Jatta (1832–1895), Ruvo di Puglia, come qualcuno ha scritto, non è ancora chiaro e soprattutto non è noto il contenuto delle dichiarazioni rilasciate in sede di presentazione della domanda di esportazione definitiva.

Per quanto riguarda la «Carità», fermo il segreto istruttorio che non permette di conoscere compiutamente quali siano gli artifici e raggiri che i proprietari avrebbero posto in essere per indurre maliziosamente in errore la Soprintendenza di Genova, pare evidente che quanto dichiarato a proposito dell’attribuzione non possa ritenersi falso.

La «Carità», infatti, non ha, dopo la mostra di Conversano, che non può paragonarsi alla National Gallery (dove l’«Allegoria» di Vasari era stata esposta) non è stata studiata da altri studiosi di riferimento dell’artista e del periodo, quindi, non può sotto il profilo giuridico sostenersi che abbia un’attribuzione certa alla Gentileschi e neppure che abbia un valore certo di 2 milioni di euro. I prezzi di aggiudicazione delle opere di Artemisia oscillano, infatti, tra i 167 mila euro della Santa Cecilia battuta da Christie’s lo scorso 10 giugno e i 2.300 mila euro della Venere e Cupido venduta l’8 giugno scorso.

È incontestabile, inoltre, che la «Caritas» fosse stata esposta in Italia nel 2019 in una mostra con il patrocinio della regione Puglia come opera attribuita a Artemisia e che successivamente a tale mostra, che la Soprintendenza era tenuta a conoscere non risultano essere «sopravvenuti motivi di pubblico interesse o mutamenti della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento».

Sono pertanto da condividersi, anche sotto il profilo di diritto, le critiche del prof. Riccardo Lattuada, che evidentemente condividendo l’attribuzione ad Artemisia dell’opera, ha sostenuto si trattasse di un caso di «incompetenza» dello Stato che non rientra, però, nella casistica che consente l’annullamento in autotutela dell’attestato senza indennizzo, né in uno Stato di diritto dovrebbe essere la base su cui incardinare un processo penale.

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