Oldenburg-van Bruggen. Oltre la Pop Art

Ripubblichiamo un’intervista di Franco Fanelli al duo di artisti uscita in occasione della personale al Castello di Rivoli nel 2006

«Frammenti di architetture» (1985) di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen
Franco Fanelli |

È scomparso nel quartiere SoHo di Manhattan all’età di 93 anni Claes Oldenburg, figura chiave della Pop Art e autore con la compagna Coosje van Bruggen di monumentali sculture negli spazi pubblici di tutto il mondo. In questa intervista del 1985 il duo di artisti racconta «Il Corso del Coltello», la scultura-spettacolo prodotta in collaborazione con Frank O. Gehry e presentata a Venezia.

Il lavoro di coppia non è una prerogativa delle ultime generazioni di artisti: Claes Oldenburg (Stoccolma, 1929) e Coosje van Bruggen (Groninga, 1942) lavorano insieme dagli anni Settanta, come documenta una mostra in corso nel Castello di Rivoli sino al 25 febbraio e curata dalla direttrice Ida Gianelli e da Marcella Beccaria. 200 le opere esposte, tra sculture, progetti e maquette. Il duo, in realtà, è di casa a Rivoli, dal momento che il Museo annovera in collezione due loro opere.

Uno dei temi dell’intervista concessa a «Vernissage» da Oldenburg e van Bruggen è la scultura pubblica, un argomento particolarmente attuale da quando l’assessore alla cultura di Milano, Vittorio Sgarbi, ha stroncato senza mezzi termini il loro «Ago e filo», collocato nel piazzale Cadorna.

Qual è la funzione della scultura pubblica?
Coosje van Bruggen: Il termine «scultura pubblica» sembra implicare l’esistenza di un gusto comune. Se fosse possibile misurarlo, il risultato dimostrerebbe in modo inequivocabile che al posto dell’innovazione e dell’eccezionalità del livello qualitativo oggi si trovano mediocrità, conformismo e incapacità a sorprendere. Penso che sia vero che un tempo la «scultura all’aperto» fosse più regolamentata e integrata nella società grazie all’influenza dei sovrani, della chiesa e dei governatori che fungendo da mecenati di fatto dettavano il gusto. Oggi invece sono i rappresentanti della comunità come i sindaci, i membri del Consiglio cittadino, i dirigenti aziendali e altri mecenati privati che per una ragione o per l’altra contribuiscono all’abbellimento dell’area urbana in cui vivono. Spesso questo si traduce in un’aiuola spartitraffico per la via principale, un parco, un marciapiede o un piazzale. Nel nostro lavoro tendiamo a cercare un tema con un valore iconico, il più delle volte un oggetto d’uso quotidiano che riassuma le proprietà fisiche e culturali di un sito. In questo modo i nostri progetti in scala ingrandita diventano ciò che conferisce identità a un edificio, com’è stato per «Binoculars», una sezione della sede dell’agenzia pubblicitaria Chat/Day di Santa Monica, in California, realizzata in collaborazione con l’architetto Frank O. Gehry. Alcune delle sculture progettate per un luogo possono poi diventare dei punti di riferimento. Un esempio è lo «Spoonbridge and Cherry» di Minneapolis, in Minnesota, e un altro è «Cupid’s Span» di San Francisco. Altre commissioni, invece, hanno portato a progetti di natura per così dire commemorativa, come i «Flying Pins» di Eindhoven, in Olanda, oppure come «Spring», per il Cheonggyecheon Stream di Seoul, nella Corea del Sud, un progetto ambientale costituito da un fiume che sgorga dall’asfalto e che per più di quattro miglia attraversa il centro della città; o infine come i «Balancing Tools», a Weil-am-Rhein, in Germania.

L’inizio della vostra storia è legato alla Pop art. Com’è cambiato il vostro lavoro?
Claes Oldenburg: Sin dall’inizio il mio approccio è stato quello di dare forma ai miei sentimenti e alla mia immaginazione impiegando oggetti d’uso quotidiano. Il fatto che per la società in cui ho sempre vissuto e per cui ho lavorato quegli oggetti fossero prodotti industrialmente e apparissero convenzionali, fece sì che il mio lavoro fosse definito «pop». Ma se da un lato il «pop» è uno stile che si adotta intenzionalmente, l’arte invece per me doveva essere il prodotto del vissuto, una risposta alle circostanze che via via si presentano, un’espressione soggetta al cambiamento. Quando io e Coosje cominciammo a lavorare insieme alle sculture di oggetti in scala ingrandita, il lavoro si adattò spontaneamente al suo punto di vista. Ad esempio, la mia tendenza a isolare gli oggetti è stata controbilanciata dalla sua attenzione sui rapporti tra questi e il contesto specifico, nonché sulla loro interazione. Il nostro modo di lavorare ambisce a essere complementare. Io tendo a enfatizzare l’effetto della forza di gravità sugli oggetti; Coosje li vede in movimento, «accelerati», lanciati in velocità nello spazio. Per conferire movimento a una forma la tecnologia digitale può essere di grande aiuto. Coosje la sfruttò per trasformare «Collar and Bow» in una struttura dinamica, dove il «colletto» sembra aprirsi di scatto in una direzione mentre il papillon sembra rotolare via in un’altra, sebbene sia colto nel mezzo dell’azione come in un’istantanea.

Perché oggi la Pop art riscuote successo presso gli artisti giovani? Basti pensare al «Tappeto» di Cattelan esposto a Rivoli...
C.V.B.: L’età dell’informazione consente agli artisti di attingere facilmente a banche dati di immagini che spaziano attraverso i secoli. Oggi lo stimolo è quello di liberarsi dalle catene delle classificazioni come Pop, Minimal e Arte Concettuale. Quello che noi cerchiamo di fare, che non può essere etichettato, è un’esplorazione dell’«in between», delle dimensioni intermedie, che necessita la ricerca di un approccio più inclusivo, sintetico e basato sull’integrazione tra l’arte e le nostre esperienze quotidiane. Gli artisti saranno sempre ispirati da altri artisti. I progetti e gli interventi di Maurizio Cattelan, ad esempio, sono per noi non tanto una specie di «Neo Pop art» quanto anch’essi un tentativo di sfuggire a una definizione.

Come vi dividete i compiti?
C.O.: Ciascun lavoro ha una storia diversa e diversa è l’influenza esercitata da ciascuno di noi. Non esistono regole che stabiliscano chi fa che cosa. Un concetto può venire da Coosje, ma poi può essere modificato in collaborazione. Oppure posso essere io a delineare un concetto, ma il disegno può anche cambiare in base a un suo suggerimento. Un modello può essere inizialmente opera mia, ma a mano a mano che si procede questo può subire modifiche da parte di entrambi. Alla fine il tutto sembra coerente e anche se l’approccio dell’uno o dell’altra appare dominante, questo non ha alcuna importanza se poi il risultato definitivo è buono. Ciascuno di noi ha le sue specialità. Tra quelle di Coosje c’è il colore. La tinta precisa di un lavoro è sempre un’invenzione basata su una coincidenza di colori: quello del soggetto, quello di un elemento dell’ambiente circostante e un terzo dettato da esigenze puramente estetiche. Coosje definisce il suo approccio un’«associazione libera» che crea uno «strato emotivo» per il quale poi sviluppa una sua formula personale. Il risultato è sempre un colore molto brillante, dato che Coosje evita le mescolanze con il bianco. Le nostre discussioni in genere riguardano le sfumature. Una volta trovato un accordo, Coosje si occupa di definire la tonalità in modo esatto. Il nostro ultimo lavoro, «Spring», una scultura alta più di venti metri, si discosta dalle nostre opere precedenti in quanto, sebbene io abbia collaborato ai disegni e ai modelli del concetto, l’immagine e il design sono interamente di Coosje. In questa scultura, basata su una conchiglia conica capovolta, le tinte naturali sono state sostituite da sfumature di blu, rosso e giallo, tutti colori che nell’immaginario coreano hanno un valore simbolico. «Spring» segna la sorgente di un corso d’acqua che in passato scorreva nascosto; si tratta di un progetto ambientale pensato per il centro della città. Tuttavia «Spring» si riferisce anche al modo in cui è stata costruita la conchiglia, ovvero come un nastro che si avvolge in una spirale composta da due strisce rosse e blu che penzolando si intrecciano in una sequenza di ellissi che consentono di intravedere l’interno illuminato. Coosje dice che, includendo la parte esterna, la scultura si può anche interpretare come un’interazione di tre nastri.

Come nascono le idee per le vostre opere?
C.V.B.: Uno dei capisaldi del nostro lavoro è l’interazione tra uomini e oggetti d’uso quotidiano, la presenza umana nella sua assenza, o il risultato delle attività umane esercitate sulle cose, come ad esempio un oggetto lanciato, caduto, scaraventato, conficcato nel terreno e così via. Allo stesso tempo esploriamo il rapporto tra ciò che l’uomo produce e i processi naturali, disegnando oggetti che subiscono, o che sfidano, forze quali il clima, l’erosione e la gravità. Le nostre sculture, che sono sempre degli oggetti convenzionali, delineano un processo e sono transitorie. Molti strumenti come la macchina da scrivere o la sua tipica gomma appartengono ormai a un passato recente e per questo si sono trasformati in archetipi, hanno subito un processo di astrazione attraverso la decostruzione, l’intensificazione del colore, l’abbellimento dei contorni e le proporzioni gigantesche, e si sono trasformati in segni emotivi e carichi di pathos. La giustapposizione di diversi strati socio-temporali e la dimensione degli oggetti sono gli elementi che ci hanno spinto a lavorare nel paesaggio urbano, lontano dall’ambiente sterile imposto da molte istituzioni.

Come vi siete misurati con un luogo storicizzato come il Castello?
L’aspetto che rende il Castello di Rivoli una location così stimolante è che ogni stanza ha la sua storia (oggi distante ma nel contempo vividamente presente) e questo offre un campo di similitudini e contrasti multiformi che rendono visibile nella scultura la dimensione del tempo.

Forse uno dei primi artisti pop è stato Bernini col suo Baldacchino per San Pietro: prese un oggetto usato durante le processioni del papa e lo ingrandì, facendolo diventare una scultura stabile e gigantesca...
C.O.: Nel corso della storia gli scultori hanno ingrandito i propri soggetti: pensiamo ad esempio alla Sfinge, al Colosso di Rodi o al David di Michelangelo. È questa tradizione che noi seguiamo. Per essere dei monumenti devono avere grandi dimensioni. Il Baldacchino di San Pietro del Bernini è interessante perché a essere ingrandito in scala architettonica è un oggetto e non una figura, sebbene questo faccia pensare a un papa gigantesco. Coosje vede in quest’opera l’intento preciso di costruire un «edificio nell’edificio» al fine di sopraffare il visitatore. Questa non è necessariamente la nostra intenzione. Noi usiamo la proporzione come uno strumento di trasformazione per creare un equilibrio tra oggetto e astrazione. La proporzione è sempre determinata in base alle caratteristiche specifiche del sito che colpiscono maggiormente.

L’articolo è apparso originariamente sul supplemento «Vernissage» di «Il Giornale dell’Arte», n. 259, novembre 2006

Dall’archivio:
Intervista di Umberto Allemandi e Ida Giannelli del 1985 in occasione del progetto «Il Corso del Coltello» presentato a Venezia

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Franco Fanelli