Una talpa con la coda di scoiattolo

Nico Vascellari lavora al suo nuovo studio a due passi dal «Biondo Tevere». Sarà la Factory del terzo millennio, avrà anche un miniclub e inaugurerà in autunno con tre giorni di eventi

Ninos du Brasil. Cortesia dei Ninos du Brasil
Alessandra Mammì |  | Roma

Tutto è cominciato nel primo studio di Nico Vascellari, artista musicista, che neanche ventenne affitta un ex negozio del centro di Vittorio Veneto con una grande vetrina che permetteva ai passanti di curiosare, entrare e chiedere: «Che cos’è questo? Un nuovo locale?», «Che cosa fate qui?». «Appunto, si chiese l’artista, che cosa fare in uno studio che è sotto gli occhi di tutti? Che cosa fare di una parete di vetro? Chiuderla o approfittarne per inventarsi qualcosa di diverso: aprire le porte, collaborare, creare eventi, produrre idee, oggetti, progetti, per un mondo più largo, oltre i confini della comunità dell’arte?».

Fu la seconda ipotesi a vincere. E fu l’inizio di un viaggio che ci porta fino ad oggi, in questi giorni di torrido luglio romano in cui Vascellari, immerso in un cantiere, lavora a finire e rifinire il suo prossimo coinvolgente studio-laboratorio: un ex ufficio postale, oltre 400 metri quadrati di spazio espositivo, ufficio, magazzino, palcoscenico. Il tutto ancora una volta con vetrine su strada, nella prima fascia della periferia storica, nel quartiere Ostiense, a due passi dall’ansa del fiume e del «Biondo Tevere», ristorante passato alla storia per aver cucinato l’ultima cena di Pier Paolo Pasolini, dove Nico è solito invitare amici e colleghi per un rituale «Giovedì gnocchi» in cui offre un piatto di pasta, pensieri, conversazione e tovaglioli personalizzati come souvenir.

Ulteriore impegno che si aggiunge ai concerti con la sua band «I Ninos du Brasil»; alla produzione di t-shirt, multipli e gadget; all’apertura di due punti-vendita nelle stazioni centrali di Roma e Milano; alle mostre (l’ultima appena chiusa nella galleria Massimo De Carlo di Parigi); e a una vitalità davvero «larger than life». Tanto che, nonostante la convalescenza da Covid appena finita, eccolo nel suo futuro covo a studiare disegni per decorare le saracinesche, dare indicazioni all’impresa, progettare un’epocale inaugurazione per il prossimo autunno promettendo di allargare ulteriormente lo spazio di tutti gli incerti confini che definiscono il Vascellari pensiero e operato: musica, moda, impresa, arte, design, all’insegna di quel nome che tutto raccoglie: Codalunga. Un marchio, un brand, una filosofia, oppure un sistema alternativo di mercato e sopravvivenza dell’arte? É da qui che cominciamo a discutere.

Nel 2004 su «Wired» appare una nuova teoria economica «The long tail» (La coda lunga), che descrive il modello commerciale nato con le piattaforme web, tipo Amazon, dove è possibile trarre profitto vendendo poche unità di tantissimi prodotti diversi. La sua Codalunga, nasce un anno dopo e ne sembra un’applicazione estesa anche al campo creativo.
Sbagliato. Codalunga è semplicemente il nome che da bambino davo allo scoiattolo. Non c’entra niente l’economia e neanche il web. É tutta natura.
Nico Vascellari. Foto Mattia Zoppelaro
Eppure lei è un modello di artista imprenditore. Hai prodotto musica, merchandising, eventi, multipli. Stai cercando di costruire un’economia alternativa al sistema e al mercato dell'arte?
Non mi sento «alternativo» al sistema dell’arte. Il mio è solo un altro modello possibile. Credo che le cose non siano mai così monolitiche. Fin da subito mi sono posto come un artista indipendente e ho sempre voluto mantenere un’indipendenza intellettuale e anche economica. Ho cominciato a vendere cose per soddisfare e ripagare il sostegno di persone che non erano appartenenti all’arte e che magari non avevano soldi per comprare un’opera. Offrire una t-shirt in edizione limitata era un modo di creare comunità. E comunque non è neanche una novità, lo hanno fatto molti artisti prima di me.

Ma Codalunga è qualcosa di più che vendere una t-shirt. Somiglia di più a un brand.
È possibile. Del resto io non ho fatto l’accademia, non ho seguito un percorso tradizionale, ho avuto un gruppo musicale, ho fatto l’impresario e organizzavo concerti ed è un lavoro che comprende tanti livelli, tra cui anche una parte artistica come impostare la grafica, scegliere un colore, un carattere, un logo. Accanto a questo, c’è una parte manageriale, un’economia da gestire, quindi incidevo una cassetta, la rivendevo in cento copie e con il ricavato organizzavo un altro concerto. L’arte e la musica erano veicoli per far viaggiare idee: parlare di omofobia o cultura vegana, femminismo, pace e guerra.

Il mondo dell’arte, dunque, le sembrava stretto?
Mi sembravano stretti gli spazi. Per esempio quello della galleria. Una delle prime performance che ho fatto intorno al 2002 consisteva nel chiudere i visitatori dentro la galleria mentre la mia azione era sulla strada. Il pubblico poteva vederla dalla vetrina. Loro chiusi nella «comfort zone», io fuori in un luogo che era impossibile controllare, dove c’era spazio per l’imprevisto, dalla macchina che passava all’intervento di un estraneo. Era un modo per rendere unico l’evento, lasciare libera l’improvvisazione, andare oltre i confini espositivi e per appropriarmi del mondo reale.
Uno still dal film «IONOI» (2021) di Nico Vascellari
È insofferente all’autoreferenzialità del mondo dell’arte contemporanea?
Mi creano insofferenza i codici nei quali il mondo dell’arte tende a rinchiudersi. Nei primi lavori ho molto indagato il mondo delle talpe. La talpa nei miei disegni era una linea verticale che attraversava una linea orizzontale ovvero, la terra. La talpa dunque creava un vincolo fra un mondo sotterraneo e un mondo di superficie. La talpa ero io: l’artista che nasce nell’underground e cerca di fondere universi separati, interno/ esterno, strada/galleria, sotto/sopra. E la mia band, «Ninos du Brasil», aveva (e ha) in sé un progetto liberatorio con quella lingua che imita il suono dell’inglese, ma non pronuncia vere parole: come il pappagallo (il nostro simbolo), in grado imitare il linguaggio umano senza piegarsi all’apprendimento. Era il mio sguardo sghembo sulla cultura pop. Cominciai a proporre dei concerti che fossero anche performance, per unire il mondo dell’arte e il mondo della musica.

Hanno funzionato?
No. Il mondo dell’arte era infastidito dal linguaggio della musica e chi invece veniva dal mondo della musica era disturbato dall’idea di una band che si metteva a fare l’artistoide.

Nessuno dei due sistemi poteva essere disposto a mettersi in discussione per lei.
É vero. Ma in questo non soddisfare nessuno ed essere fuori luogo ho capito che avevo trovato la mia strada. In fondo neanche così lontana dai primi esperimenti nello studio di Vittorio Veneto. Persino i negozi temporanei che Codalunga ha aperto alla stazione Termini di Roma e alla Centrale di Milano nascono da quelle prime vetrine. La stazione è l’equivalente del Corso: un pubblico casuale fatto di passanti che devono essere catturati con la curiosità, il fastidio o l’incomprensione.
Una veduta della mostra di Nico Vascellari, «Parade of Bruises»,  MassimoDeCarlo, Pièce Unique, Parigi. Foto Thomas Lannes © Courtesy dell’artista e MASSIMODECARLO
Obiettivi raggiunti?
In parte. Dal punto di vista economico direi di sì. Lo store di Roma è stato prorogato fino a settembre e nel frattempo ne abbiamo aperto un altro a Milano. Ma non siamo riusciti a trasformarlo in una destinazione. Resta uno spazio di passaggio, un luogo sospeso e gli eventi che abbiamo proposto non sono andati benissimo. Forse ci vuole più tempo. Ma anche questo è tema di riflessione.

Che cosa spinge un acquirente non legato all’arte a comprare i suoi prodotti?
Probabilmente il fatto che veicolano messaggi che vanno al di là dell’oggetto-arte. Dream/Merda, Sister/Resist sono messaggi, creano corto circuiti, mettono in connessione significati diversi. Quindi creano nuovi mondi.

Qual è il suo progetto? Sta cercando di costruire una Factory del terzo millennio? Sarà questo il destino del suo nuovo studio?
Warhol è un artista immenso, come non pensarci? Ma non so dire se questo studio sarà una Factory. Certo è che qualsiasi tipo di studio io abbia mai avuto è sempre stato un luogo aperto agli altri, alle collaborazioni, al lavoro in comune. Qui sto progettando persino un miniclub, una stanza con ruote ultra insonorizzata per piccoli concerti e naturalmente uno spazio espositivo in vetrina aperto a chiunque passi per strada. E poi voglio inaugurare con tre giorni di eventi che spero siano indimenticabili. Perché il mio progetto resta sempre questo: aprire quanto più possibile il proprio pubblico, testare me stesso, non puntare all’applauso, mettersi in uno stato di disagio, cercare una verifica. É l’attrito non la conferma a generare la ragione stessa del fare arte.

© Riproduzione riservata Uno still dal video della performance «DOOU» (2020) di Nico Vascellari Il Codalunga temporary show di Roma Termini
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