Armitage e la pittura «en plein air» dopo la pandemia

L’artista anglo-kenyota racconta un nuovo corpus di opere esposto nella sua personale alla Kunsthalle di Basilea

Michael Armitage. Foto Philipp Hänger/Kunsthalle Basel
Louisa Buck |  | Basilea

Michael Armitage nasce in Kenya nel 1984 da madre kikuyu e padre inglese. Dopo l’infanzia a Nairobi studia alla Slade School of Fine Art e si diploma nel 2010 alla Royal Academy Schools di Londra. La sua pittura narrativa, vivida e stratificata, accoglie queste e altre influenze ispirandosi ai miti, alle storie africane, all’arte contemporanea dell’Africa orientale, alla storia dell’arte europea e alle immagini di attualità contemporanea. L’artista dipinge a olio su una fibra di corteccia di Lubugo, materiale cerimoniale prodotto in Uganda dal popolo Baganda. Dopo aver preso parte alla Biennale di Venezia del 2019 è stato eletto accademico reale a Londra nel gennaio scorso prima di fondare il Nairobi Contemporary Art Institute (NCAI), uno spazio no-profit dedicato all’arte contemporanea dell’Est africano. Abbiamo avuto occasione di intervistarlo per la sua mostra a Basilea.

Con questa mostra alla Kunsthalle, la sua prima personale in Svizzera, presenta quasi esclusivamente opere inedite.
A causa del Covid ho vissuto in lockdown a Londra e a Nairobi lavorando proprio su questi dipinti terminati il mese scorso. Il soggiorno prolungato a Nairobi mi ha spinto a lavorare en plein air, un desiderio che nutrivo da tempo e che non avevo mai potuto realizzare. Il risultato sono la maggior parte delle opere esposte.

Per quale ragione ha scelto di lavorare all’esterno?

Ho riflettuto sulle modalità di rappresentazione del paesaggio proprie degli artisti kenyoti provenienti dalle comunità di coloni oppure indigene. Se i coloni realizzano vedute oggettive, con paesaggi catturati come appunti in presa diretta su un taccuino, gli artisti del Kenya o dell’Africa dell’Est restituiscono un paesaggio astratto e interiorizzato, quasi un personaggio nel cuore del dipinto. Personalmente ho assunto una posizione sperimentale di osservazione e di reazione diretta al paesaggio, ragionando su queste modalità di astrazione e sull'inserimento di narrazioni storiche e mitologiche. Per questa mostra mi sono anche interessato alle interazioni fra prospettiva, stratificazione e percezione psicologica di fronte all’opera e a come queste possano incoraggiare o meno lo spettatore ad entrarvi.
Una veduta della mostra di Michael Armitage «You, Who Are Still Alive» (2022), Kunsthalle Basel. Da sinistra: «Dandora (Xala, Musicians)» (2022) e «Amongst the Living» (2022). Foto Philipp Hänger / Kunsthalle Basel
Lei ha trascorso la sua infanzia a Nairobi frequentando più tardi una scuola d’arte nel Regno Unito. Questo «mélange» di storia dell’arte occidentale classica e arte contemporanea, condita con riferimenti tradizionali all’Africa dell’Est, è un elemento cruciale dei suoi dipinti.
Ho sempre voluto che l’aspetto narrativo fosse centrale nel mio lavoro. Vorrei poter scrivere e raccontare storie, ma non sono capace, quindi volevo che questo facesse parte della mia pratica artistica e della mia vita. Crescere in Kenya esposto alla scena artistica contemporanea di quel paese, e poi affrontare l'intero percorso di laurea alla Slade, e poi ancora svolgere il post-laurea alla Royal Academy: per me è stato un lento risveglio a questo altro mondo dell'arte, della pittura e del pensiero in senso più ampio. È diventato chiaro ai miei occhi che spesso, in ogni forma d'arte, gli artisti affrontano qualcosa di fondamentale che ha a che fare con l'esperienza umana e con il modo in cui le persone si relazionano tra loro. Ho trovato narrazioni molto diverse tra loro, sia nella storia dell'arte occidentale che in quella del Kenya e così via, ma ci sono anche dei legami che ho considerato sorprendenti come l’influenza inaspettata tra artisti provenienti da diverse parti del mondo.

I suoi dipinti sono tutti realizzati su tessuti ricavati dalla corteccia di Lubugo proveniente dal Sud dell’Uganda. Perché utilizza questo materiale?
Ho cercato qualche cosa che potesse risituare la mia pratica nel contesto culturale della storia dell’Africa dell’Est affinché questo cambiamento di cultura fosse intessuto nell’opera fin dall’inizio. Mi sono imbattuto nel Lubugo sul mercato turistico scoprendo in seguito che, seppur venduto come souvenir tribale kenyota, si trattava di un tessuto ugandese. Questa dinamica corrisponde perfettamente alle pressioni culturali prodotte da un Paese in evoluzione. La superficie del Lubugo è servita a localizzare e a sovvertire la mia pratica artistica nonché ad aprire nuove vie di riflessione su come utilizzare le immagini su di una superficie irregolare. Una sfida continua ed estremamente feconda.
«Curfew (Likoni March 27, 2020)» (2022) di Michael Armitage. Foto Philipp Hänger/Kunsthalle Basel
A Basilea presenta anche delle opere di piccolo formato a inchiostro su carta, svelate per la prima volta alla Biennale di Venezia. Qual è la loro relazione con la produzione a olio?
In tutta onestà, non le considero delle opere: sono letteralmente le pagine del mio taccuino di schizzi, stese senza la preoccupazione che qualcuno potesse vederle. Solo a Venezia le ho mostrate al pubblico, non senza una certa reticenza.

La mostra s’intitola «You, Who Are Still Alive». Che cosa ha motivato questa scelta?
Volevo un titolo che fosse aperto a inglobare le diverse narrazioni ed esperienze raccolte in mostra, che si trattasse di vicende passate, storiche, mitiche o ancora di eventi del nostro presente.


Traduzione di Mariaelena Floriani

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