Larry Gagosian, il mercante di stelle

Entrato in scena nel 1980, il gallerista californiano ha creato il più vasto network multinazionale mai esistito e ora deve vedersela con una concorrenza sempre più aggressiva. Ha perso l’esclusiva su Gorky e Koons, ma ha ottenuto quella su Donald Judd e Brice Marden

Larry Gagosian e Jean-Michel Basquiat a New York nei primi anni Ottanta © David Hockney. Foto Richard Schmidt
Franco Fanelli |

Si dice che Giuseppe Penone abbia ceduto alle lusinghe della Gagosian Gallery solo dopo mesi di tormentate riflessioni. Penone, per tutti noi, è ancora il ragazzo che abbraccia un albero lasciandovi una traccia incancellabile affinché il suo corpo divenga esso stesso albero. È lo scultore che la fotografa Nanda Lanfranco ritrae di spalle seguito dal suo cane e che alla cintura porta infilata un’ascia. Deve aver pensato: ma che c’entro io con il neopop Jeff Koons, con il «giostraio» Carsten Höller, con l’illusionista Urs Fischer? E poi come si fa a tenere insieme Baselitz e Sara Sze, Warhol e Bacon, Jenny Saville e Richard Serra e Twombly? Non è che poi finisco affogato in una specie di catalogo d’asta vivente di tutto ciò che può desiderare un collezionista d’alto bordo?

Alla fine però ha ceduto, pur mantenendo la liaison con Marian Goodman. Come ha ceduto un radical attivista del calibro di Theaster Gates. È vero, Gagosian è un marchio, un brand. Ma quando Pepi Marchetti Franchi, direttrice della sede romana della più potente galleria del mondo, ti dice che gran parte del lavoro suo e quello dei suoi omologhi nelle 16 o 17 o 18 sedi in Europa, America e Asia è anche «aiutare l’artista a ottenere il risultato che lui si aspetta da una sua opera, da una sua installazione» e tu, artista, sai che è vero, che ci sono i soldi, i rapporti e la professionalità per farlo... beh, è difficile dire di no. Se il diavolo veste Prada, i quadri li compra o se li fa comprare da Larry Gagosian. Che il 9 maggio scorso ha comprato da Christie’s la Marilyn da 195 milioni di dollari.

Andy ti presento Larry
Si sono sempre piaciuti Andy & Larry. «Benché io fossi giovane e lui una superstar, deve aver visto in me un suo simile: gli piaceva vendere e far soldi. E io l’arte ho sempre preferito commerciarla che discuterla» («La Repubblica», 30 novembre 2012). Dieci anni dopo Gagosian si guarda bene dal replicare uscite di quel genere. Preferisce dire che ha un buon occhio per le cose belle (lo conferma Nick Serota); e Jenny Saville dice che «i soldi e l’arte lo attraggono in egual misura».

Un’equazione cara anche a Leo Castelli, suo modello e mentore quando nel 1979 il giovane californiano arriva a New York: «Avevo una cattiva reputazione per via del mio stile di vita, del mio passato di venditore di manifesti a Westwood e quant’altro, dichiara nel 2008 ad Annie Cohen-Solal (autrice della biografia Leo & C., pubblicata da Johan & Levi). Ma Leo mi ha dato legittimità. Mi raccontava ridendo le dicerie che circolavano sul mio conto, si divertiva un mondo. Se ho avuto successo lo devo a lui. È stato per me una miniera d’oro, mi ha dato Stella, Lichtenstein, Warhol».

Già attivo a Los Angeles (dove la storia ufficiale assegna al 1980 la nascita della prima Gagosian Gallery) con quell’estensione coast-to-coast, l’allora poco più che trentenne gallerista annunciava quella che sarebbe stata la sua strategia per ottenere il successo: espansionismo, ubiquità, spregiudicatezza, moto perpetuo, ma anche capacità, rilevando in questo l’eredità spirituale di Leo Castelli, di miscelare mercato e cultura. O meglio, di non far passare la figura del mercante come mero piazzista di merce, bensì come professionista conscio di agire in un ambito in cui la merce proposta è portatrice di un ingrediente elitario almeno quanto la potenzialità economica dei compratori di Warhol & C.: la cultura.

La cultura, pochi anni dopo, sarebbe diventata la gigantesca ma indispensabile foglia di fico dell’era delle fiere, l’alibi grazie al quale una struttura inequivocabilmente simile a un centro commerciale poteva essere frequentata senza pudori. Se oggi non c’è fiera al mondo di qualche ambizione che non abbia le sue «sezioni curate» da trenta-quarantenni altrimenti destinati alla disoccupazione dopo la laurea e i master, ebbene Gagosian fu un precursore di tutto ciò. A New York affidò la sua prima galleria a Robert Pincus-Witten, un intellettuale, laureato a Chicago con John Rewald (il luminare dell’arte impressionista e postimpressionista) e poi critico e docente universitario.

Hirst il figliol prodigo
Aprendo precocemente il dialogo tra mercato (galleria) e tempio (museo), Gagosian si è da subito impossessato di una carta vincente per assicurarsi i migliori artisti del mondo, ai quali avrebbe potuto garantire sedi prestigiose per le loro mostre. E la «vanità culturale», oltre all’avidità di gloria e denaro, è uno dei «peccati immortali» degli artisti. Per dirla tutta: non è che Anselm Kiefer, in questo periodo, si stia misurando a Palazzo Ducale a Venezia con la storia (non solo pittorica) della Serenissima solo perché è una star, ma perché qualcuno, nella Gagosian Inc., sapeva che a Gabriella Belli, direttrice dei Musei Civici di Venezia, l’arte del tedesco evocatore di fantasmi maligni e benigni del passato piace moltissimo.

Lo stesso accadde per Baselitz nel 2019, con la mostra alle Gallerie dell’Accademia. E, per restare a Venezia, fu la Gagosian Inc. a rimettere in pista Damien Hirst, che dopo la famosa auto-auction del 2008 da Sotheby’s Londra a dire la verità sembrava un po’ scoppiato, favorendo nel 2017 la mostra «Treasures from the Wreck of the Unbelievable» a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana, chez Pinault, asso pigliaquasitutto del collezionismo d’arte contemporanea. Perché Gagosian è un tiranno illuminato e benevolo, pronto ad accogliere il figliol prodigo un po’ dissoluto che pure, probabilmente, non aveva dimostrato la debita gratitudine dopo che, nel 2012, il gallerista gli aveva offerto la possibilità di rientrare nel giro esponendo l’intera serie dei non esaltanti «Spot Paintings» in otto capitali in contemporanea, nelle sedi di New York, Londra, Parigi, Los Angeles, Roma, Atene, Ginevra e Hong Kong.

Il Gagosian Style è la ferocia in guanti bianchi; è ciò che negli anni Ottanta Sugar Ray Leonard portava nel mondo della boxe, pugni da ko con le stesse mani con le quali suonava il pianoforte, movimento perpetuo (Gagosian sta a Leonard come Leo Castelli sta a Muhammad Ali) attraverso il quale trasformare, per il malcapitato rivale, i pochi metri quadrati del ring in una chilometrica e rovente distesa sabbiosa, sulla quale sfinirlo solo schivando i suoi colpi e arrivando prima al mento dell’avversario. Il 1980, l’anno di nascita della Gagosian Gallery, è anche quello del celebre match del «no mas» rantolato da Roberto «manos de piedra» Durán dopo essere stato irriso per otto round da Leonard.

La fine del proibizionismo
Mercato e cultura, galleria e museo con Gagosian cominciarono presto a funzionare come vasi comunicanti: il riflusso delle ideologie, il famoso «edonismo reaganiano» unito al pragmatismo americano molto contribuirono a sdoganare ciò che era stato, almeno ufficialmente, tabù. Il ragazzo di Los Angeles figlio di un ragioniere che sognava di scrivere per il teatro e di una casalinga pittrice sembrava, come direbbe Guccini, scartato alla leva del jet set dopo il licenziamento dalla William Morris, la mastodontica agenzia scopritrice e tutrice di talenti attoriali, musicali e letterari. Invece nel jet set ci sarebbe tornato alla grande.

Chi lo conosce bene dice che ha conservato la timidezza della sua gioventù. Timido o no, dopo un’esperienza come parcheggiatore riusciva a vendere facilmente poster ai passanti e poi agli avventori del suo primo negozio, dove i poster medesimi costavano dieci volte tanto, narra la leggenda, perché aveva lo spazio per incorniciarli. Un parcheggiatore deve avere uno sguardo fulmineo e uno spirito d’osservazione allenato. Il raggio visivo del parcheggiatore è a 360 gradi per individuare più in fretta degli altri chi sta per partire e chi (o che cosa) sta per arrivare. E lui comprese tutto in anticipo. Bastava guardarsi attorno, in quei primi anni Ottanta, per capire che qualcosa si stava muovendo anche nel mondo dell’arte, dove i nuovi ricchi che facevano soldi in borsa avrebbero presto comprato nuove grandi case con grandi pareti per attaccare grandi quadri.

Aveva capito che collezionare arte contemporanea sarebbe diventato il più stravagante hobby per quei tizi che nel decennio dopo avrebbero attraccato i propri yacht sulla riva degli Schiavoni. Alla Biennale di Venezia, nello stesso 1980, mentre si organizzava una retrospettiva su Balthus e un Padiglione statunitense incredibilmente affollato ospitava, tra le altre, opere di Brice Marden e Frank Stella, la sezione «Aperto Ottanta» curata da Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann ai Magazzini del Sale (una sorta di pre Corderie) mandava in prima fila la nuova pittura di Chia, Schnabel, Paladino e Cucchi.

La «fine del proibizionismo» non riguardava, come è stato scritto, soltanto l’architettura (che proprio nel 1980 celebrava la sua prima mostra alla Biennale), ma tutto il mondo dell’immagine, cinema incluso, e della narrativa. Charles Saatchi, uno dei primi importanti clienti di Gagosian, puntava sulla Transavanguardia. Tony Shafrazi, di origine armena come il suo quasi coetaneo collega di Los Angeles (ma per tutto il resto agli antipodi rispetto a Larry occhi di ghiaccio, cui, al contrario di Tony, non sarebbe mai venuto in mente di pasticciare con una bomboletta spray «Guernica» di Picasso esposto al MoMA), puntava sui graffitisti della prima ora, da Basquiat in giù.

Anche se a «far grande» Basquiat dopo la sua morte è stato, insieme a Shafrazi e Bruno Bischofberger, lo stesso Gagosian. Tra i visitatori della vasta retrospettiva organizzata da quest’ultimo nella sede di Chelsea a New York nel 2013 c’era anche Annina Nosei, una delle prime a comprendere il genio e il tormento del Picasso nero. Una vecchia conoscenza di Gagosian, con il quale aprì una galleria a Soho nel 1978, «proprio davanti al quartier generale di Leo Castelli, al 420 di West Broadway».

A farli avvicinare, il comune interesse per i disegni di Twombly. L’unione durò poco «perché Larry era uno straordinario mercante che sapeva mettere l’arte al primo posto. Quando nei primi anni Ottanta aprì la sua galleria sulla Ventitreesima seppe prendere quasi sempre il meglio. Per lui valeva il motto: “la qualità paga”». È in quel periodo, comunque, che Gagosian affina la sua arte prediletta, laddove l’alleanza non esclude la concorrenza: su consiglio di Annina Nosei si porta David Salle a Los Angeles (dove aveva inaugurato la galleria con una mostra di sculture di Sol LeWitt); dopo averlo visto da Mary Boone, organizza nella stessa città una mostra di Eric Fischl. Poi toccherà a Richard Serra e allo stesso Basquiat.

Ma lo sguardo di Gagosian, già allora ribattezzato Go-Go, andava molto oltre. Aveva capito che la fine del proibizionismo non era soltanto questione di «ritorno della pittura» e di fine del Concettualismo o del Poverismo. Nell’era che andava schiudendosi non ci sarebbe più stato posto per i vecchi -ismi, per le gallerie «di tendenza» e per la separazione fra le tribù dell’arte. Il collezionismo era pronto al grande cocktail da sballo, globale e trasversale. Il mondo, che ai più sembrava ancora enorme, stava diventando sempre più piccolo, come era in realtà il ring di pugilato su cui Leonard umiliò Durán.

Bisognava renderlo ancora più piccolo e, contemporaneamente, fornire ai nouveaux riches il più vasto catalogo possibile. Sfogliando ora quello pubblicato (in bianco e nero) in occasione della Biennale 1980, ritroviamo alcuni nomi di punta della ecumenica scuderia Gagosian: dove Balthus convive con Penone, e Frank Stella e Brice Marden con Kiefer e Baselitz. Il mondo doveva essere sempre più piccolo, in maniera inversamente proporzionale all’offerta della Gagosian Inc., che abbatte i confini e accorcia le distanze fra le tendenze, gli stili e le epoche del XX secolo. E, soprattutto, diventando un network.

Ma chi è ’sto Go-Go?
L’espansionismo gagosiano ha però il suo potente impulso negli anni Duemila. Sino alla seconda metà degli anni Ottanta punta piuttosto a rafforzare la sua posizione a Manhattan, dove apre altre due sedi. L’impero non è ancora globale; ma uno dei primi ritratti giornalistici, scritto da Andrew Decker nel 1991, ne parla già come di «uno dei più importanti mercanti newyorkesi accanto a Mary Boone, Robert Miller, Arnold Glimcher e Leo Castelli. Negli anni Ottanta è diventato il campione incontrastato del secondo mercato. (...) Gagosian opera su tre livelli. Espone opere provenienti da successioni o di artisti viventi; organizza delle rassegne storiche, riunendo dipinti di qualità assai elevata spesso prestati da musei o da collezionisti privati, che non sono in vendita; le rivendite costituiscono infine la sua principale fonte di rendita. Non è possibile che il suo magazzino contenga sempre e soltanto capolavori, ma lui può attingere in quelli dei più grandi collezionisti, ad esempio Saatchi, che considerano le loro raccolte come organismi viventi suscettibili di trasformazioni. E Gagosian non ama le cose congelate. In questi casi, la sua percentuale varia tra il 5 e il 20%».

La mitologia gagosiana prende corpo in quei primi anni Novanta: «I suoi nemici, continua Decker, affermano che è lento a pagare, che spia la concorrenza andando a frugare nei magazzini dei suoi colleghi, che interferisce nei rapporti tra mercanti e collezionisti, e che cerca di vendere pezzi appartenenti a collezioni private, sui quali non ha diritto (...). Non si attarda su questioni estetiche. Per lui contano solo tre punti: che cosa si può ottenere dalla vendita di un’opera, se un’opera è adatta o meno a una data collezione e la posizione occupata da un’opera nella produzione di un artista». E intanto iniziano le congetture intorno al successo di Gagosian: «Circolano molti dubbi e rumor intorno al modo in cui finanzia le sue transazioni e il suo stile di vita, soprattutto dopo il rallentamento del mercato, prosegue Decker. Molti pensano che abbia dei partner, come Peter Brandt, che però smentisce. Utilizzando come garanzia la sua collezione valutata alcuni milioni di dollari, Gagosian ha potuto ottenere dei crediti che gli consentono di consolidare la sua posizione anche in un mercato in recessione (siamo negli anni della crisi dopo la Guerra del Golfo, Ndr)».

Ecco allora spuntare il Gagosian che, fingendo di ignorare una trattativa già in corso tra Christie’s e l’architetto Graham Gund, il quale avrebbe voluto vendere all’asta un «Black Painting» di Frank Stella, sarebbe piombato come un falco sulla preda, propiziando una vendita diretta dell’opera da Gund a Saatchi, in cambio di una congrua commissione. Il successo di Gagosian in anni in cui il mercato e il sistema dell’arte contemporanea non erano diffusi come lo sono oggi trasforma, nella narrazione che si fa del personaggio, dinamiche a ben vedere piuttosto comuni in un regime di spietata concorrenza qual è il mondo dell’arte in atti inusitati. Accadde quando nel 1992 soffiò Peter Halley a Ileana Sonnabend, e la faccenda finì in tribunale.

Anche la più recente querelle con la galleria Zwirner circa la gestione dell’eredità di Franz West, una questione che in realtà riguarda più la rivalità tra la Fondazione e l’Associazione intitolate all’artista austriaco, è stata presentata dai media come una guerra tra due giganti del mondo galleristico. Gagosian «lo squalo» è ben presto diventato uno dei personaggi principali della commedia dell’arte contemporanea e del suo mercato, un mondo che ha preso casa anche nella stampa generalista e che ha fornito materiale per numerosi pamphlet sulle sue zone d’ombra.
Un particolare del ritratto di Gagosian dipinto da David Hockney nel 2013© David Hockney. Foto Richard Schmidt
Sfide e alleanze
Se si intervista uno qualsiasi dei direttori delle sedi della galleria che compongono il Gagosian Advisory Board, il comitato consultivo formato dai direttori senior delle sedi della galleria, l’organismo all’interno del quale viene coordinata e condivisa la programmazione e la strategia del network, ci si sente rispondere che la prima preoccupazione del loro datore di lavoro è la protezione degli artisti: «Non vendiamo a chiunque. Valutiamo la solidità economica dell’acquirente ma teniamo alla larga i soggetti noti per le loro attività speculative sul mercato dell’arte».

Nell’era delle garanzie, arma a doppio taglio, il rischio flop è sempre dietro l’angolo: «Non è raro il caso in cui in un’asta venga proposta una data opera come un’esca; se l’esca non funziona, chi ci rimette è soprattutto l’artista, ci dice un membro dello staff di Gagosian. Nello stesso tempo, ho visto artisti disperati il giorno dopo che una loro opera aveva ottenuto un prezzo super a un’asta. Il loro timore è motivato dal rischio, tutt’altro che remoto, della possibile conseguenza, cioè un’inflazione delle loro opere sul mercato». Gagosian e i suoi direttori accompagnano il percorso dei loro artisti; la differenza tra l’esserne compagni di strada oppure, per utilizzare una metafora calcistica, marcatori stretti non è così chiara, ma anche questo fa parte del lascito di Leo Castelli.

Il talento, del resto, è merce rara; e oggi la domanda di talento supera di gran lunga l’offerta. E mai come oggi, checché se ne pensi, sono gli artisti ad avere il coltello dalla parte del manico e ad avanzare pretese da calciatori top player. Gagosian lo sa e per questo offre loro il meglio, che sia una mostra a Versailles o una galleria a Roma, dove ha aperto nel 2007 «per fare un regalo agli artisti in una città che loro amano, dice Pepi Marchetti Franchi, non certo perché qui il mercato sia particolarmente florido. E non è vero che lo abbia fatto per stare più vicino a Twombly». Il quale, peraltro, saputo dell’imminente arrivo del suo gallerista a pochi passi dal suo studio, non ne fu particolarmente entusiasta.

Oggi per Gagosian non si tratta soltanto di battere una concorrenza feroce o di aprire continuamente nuove filiali, ma anche di sfidare le vere rivali, le case d’asta, sul loro terreno, offrendo servizi come quelli garantiti, dal 2019, da Gagosian Art Advisory «specializzato, si legge nella home page del sito web, in consulenza curatoriale, valutazioni, gestione delle collezioni, intelligence del settore e analisi di mercato». È presieduto da Laura Paulson, già rainmaker di Christie’s e moglie di Andrew Fabricant, recentemente nominato chief operating officer della Gagosian Inc. (altro ritorno di un figliol prodigo, che per riabbracciare Larry, con cui aveva lavorato dal 1983 al 1996, ha lasciato la partnership con la Richard Gray Gallery).

Il team è ufficialmente separato dal settore vendite della galleria. Una bella sfida anche questa, soprattutto agli inevitabili sospetti di conflitto d’interessi, visto che si tratta di una società di consulenza di proprietà del più potente mercante d’arte al mondo: come convincere i collezionisti che l’intenzione non era (solo) quella di pilotarli verso gli artisti della scuderia Gagosian? In ogni caso il progetto, in cui sono stati coinvolti anche Bernard Lagrange di Sotheby’s e Michael Walker di Hauser & Wirth, funziona.

«È sempre stato inteso che consigliamo ai clienti di acquistare anche da altre gallerie, ha dichiarato Paulson a “The Canvas”. E i nostri clienti hanno acquisito opere da altre gallerie in tutto il mondo. Poi è vero, i collezionisti spesso vengono da noi sperando che possiamo dare loro accesso ad alcuni degli artisti più richiesti da Gagosian, e facciamo del nostro meglio per farlo, ma ancora una volta cerchiamo di essere equilibrati e rispettosi verso tutti i diversi direttori delle vendite, poiché bilanciano anche l’interesse e la domanda dei propri clienti».

I gagosiani
Gagosian è uno straordinario surfer nelle sempre agitate acque del mercato dell’arte, abitate da squali anche più aggressivi di lui. Per surfare in quel mare sa che è essenziale circondarsi delle persone giuste, di uno staff capace di agire su più livelli e di raggiungere un sempre più ampio parterre di possibili acquirenti. Per sedurre il billionaire tipico, per il quale la collezione d’arte contemporanea (e magari il museo privato) è accessorio necessario quanto lo yacht, serve una squadra capace di giocare a tutto campo.

Nel board composto dai direttori senior, ad esempio, oltre alla stessa Pepi Marchetti Franchi e ad altri «gagosiani» di lunga data, c’è anche Mark Francis, già curatore in capo dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh. C’è Serena Cattaneo Adorno, figlia del marchese Giacomo Cattaneo Adorno, discende dall’ultimo doge di Genova, e dell’architetto Emanuela Brignone: una giovane direttrice (lavora in una delle sedi parigine) che oltre a un ottimo background, può portare in dote eccellenti contatti. Ci sono operatori provenienti da case d’asta come Millicent Wilner, vicepresidente di Sotheby’s a Londra e a New York. C’è persino un neurochirurgo dotato di ottima collezione, Frank Moore.

Gagosian ha superato la prima, durissima fase della pandemia grazie al fatto che, sul fronte online, era già più che attrezzato. Non ama particolarmente il mondo digitale e gli Nft, ma sa che occorrerà fare i conti con ogni nuova realtà; in ogni caso crede fermamente nel fascino scatenato dalla presenza reale e non virtuale dell’opera d’arte. Infatti continua ad aprire gallerie. E a pubblicare una splendida rivista cartacea (prontamente definita la migliore al mondo da Hans Ulrich Obrist) dove l’attività della galleria è sapientemente mescolata con contenuti culturali, non esclusa la narrativa, alimentati dalle più belle firme possibili. Così si è anche assicurato lucrose pagine pubblicitarie delle più esclusive case di moda (non solo Prada), sempre pronte a cercare l’abbraccio con il mondo, altrettanto esclusivo, dell’arte contemporanea.

Pagine di pubblicità ovviamente meravigliose, dove persino sir Anthony Hopkins posa con un cappotto Brioni, e inevitabilmente più sexy rispetto a quelle dei musei, accolti gratuitamente anche perché espongono o esporranno opere della scuderia. Gagosian ama la carta stampata; i suoi fedelissimi assicurano che la laurea in letteratura alla Ucla non fu un modo un po’ più facile di altri per ottenere il famoso pezzo di carta, ma una scelta motivata da un’autentica passione: «È un lettore colto e vorace». E ama i cataloghi e le monografie (ha da poco festeggiato i 600 titoli pubblicati) , dando carta bianca a studiosi di rango, da John Richardson per Picasso a Richard Calvocoressi per Baselitz.

Divorzi e rivali
La chiusura della sede di San Francisco e il divorzio da Jeff Koons, passato alla Pace Gallery, hanno innescato una ridda di voci circa un presunto declino. La verità è che i collezionisti di San Francisco amano comprare a New York e che i ricchi della Silicon Valley preferiscono spendere il loro denaro in altri beni di lusso. Quanto a Koons, non è stata una sorpresa: dalla galleria minimizzano, affermando che dopo oltre vent’anni di sodalizio è stato un po’ come un matrimonio, che dopo alcuni alti e bassi è andato in crisi.

L’artista ha lasciato sia Gagosian sia Zwirner, asserendo che da tempo desiderava avere una sola galleria di riferimento, ma anche per dare un taglio netto rispetto ad alcune controversie che hanno riguardato il suo lavoro. Negli ultimi dieci anni Zwirner e Gagosian sono stati coinvolti in casi giudiziari con due collezionisti a proposito della vendita di opere di Koons. In ogni caso è stata una bella botta, in parte attutita dall’aver strappato proprio a David Zwirner l’esclusiva sull’eredità di Donald Judd. A chi gli ha chiesto un commento sul passaggio del suo artista-simbolo alla corte di Marc Glimcher, il proprietario della Pace, Go-Go ha sfoderato uno dei suoi commenti a doppio taglio: «Andranno d’accordo».

A proposito di Zwirner, è stato uno dei pochi che hanno avuto i mezzi per tentare di imitare il modello Gagosian, aprendo sedi a New York, Londra, Parigi e Hong Kong. L’irruzione di Zwirner sul mercato secondario significa per Go-Go un rivale in più sul suo terreno prediletto. Ma il modello multinazionale è stato seguito in maniera anche più aggressiva da Iwan Wirth, il più accreditato rivale (nel 2016 gli ha soffiato l’esclusiva sul Gorky Estate) che ha, tra le altre, due gallerie a New York, una a Los Angeles, una Londra, tre a Zurigo, una a St. Moritz oltre alla recente spettacolare sede a Palma di Maiorca e a quella di Gstaad, sempre in Svizzera, location strategica dove però lo ha già raggiunto Gagosian.

Ma a differenza di David Zwirner, classe 1964 e figlio d’arte, e Iwan Wirth (1970) che ha potuto giovarsi della floridezza finanziaria di Ursula (che ha ereditato l’impero finanziario di Albert Hauser, il marito precocemente scomparso nel 1973) e Manuela Hauser, Larry incarna il mito (e la realtà) del self made man. Anche in questo ha ricalcato la leggenda di Leo Castelli.

A 77 anni Gagosian dà lavoro a 300 persone e tratta le opere di un centinaio di artisti, spaziando, oltre ai già citati, da Picasso, de Kooning e Warhol a Rudolf Stingel, Pietro Golia e John Currin. Donald Thompson, esperto di economia e marketing, ha scritto che il volume d’affari delle sue gallerie è di 1,1 miliardi di dollari all’anno, e che esse rispondono di circa il 2% del mercato internazionale dell’arte contemporanea e del 10% di quello di fascia alta (cfr. Bolle, baraonde e avidità, ed. Mondadori). Ma lo scriveva nel 2017 ed è difficile, oggi, dire quali siano gli equilibri in campo.

Se Hauser & Wirth è come il Liverpool o il Paris St. Germain, la Gagosian Gallery è il Real Madrid: ha l’allenatore che ha vinto più di tutti, ha veterani capaci di risolvere un match in qualsiasi istante e non disdegna innesti più giovani. E in finale di Champions, comunque, c’è. Lui, Larry Gagosian, nel suo impero su cui non tramonta mai il sole ha ancora l’ultima parola su tutto, nonostante l’ampia autonomia concessa ai suoi direttori. Non ha moglie né figli e la domanda su che cosa accadrà «dopo» Gagosian è inevitabile. La risposta l’ha già data il suo braccio destro Andrew Fabricant: «Nulla. Larry è immortale».

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