Folgorato da un ardito abbinamento: Nevelson e Bettazzi

La riscoperta artista americana più che una cubista o un’espressionista astratta tridimensionale è la più spavalda ed elegante continuatrice del big bang dada-surrealista

Una veduta della mostra «Louise Nevelson. Persistence» (2022) Procuratie Vecchie, Venezia. Foto Lorenzo Palmieri
Andrea Cortellessa |  | Venezia

Può capitare, con un artista, di sentirsi in colpa. Prima ne avevo un’idea astratta, manualistica, desunta da piatte e stentate riproduzioni; al limite qualche pezzo intravisto in una sala attraversata di corsa. E poi, invece, il caso che produce l’epifania. È quanto mi è successo a Venezia, nei giorni della Vernice delle Vernici. Deluso dall’occhio del ciclone ai Giardini, vagavo sconfortato tra i frammenti della Galassia Collaterale; con non così esigue consolazioni, in effetti (l’intensità di Afro a Ca’ Pesaro, la confezione inappuntabile di «On Fire» alla Fondazione Cini). Ma il colpo a sorpresa s’è prodotto solo alla fine del tour: quando, già con la testa al ritorno, stipavo di bulimia nervosa le postreme ore di «buco».

Sino a un mese fa, per me, Louise Nevelson era poco più di un nome. E invece, appena messo il naso nelle Procuratie fresche di ristrutturazione in piazza San Marco (dove la sua mostra è visitabile fino all’11 settembre), mi ha preso con forza rapinosa. Il manuale ne parla come di una cubista o un’espressionista astratta tridimensionale, al limite un’engagée accessoria e un po’ generica (se ne ricorda l’apprendistato presso Diego Rivera negli anni Trenta; si cita uno scritto di Carla Lonzi, in occasione del padiglione americano, oggi rievocato, dedicatole dalla Biennale del ’62, per assimilarla d’ufficio al cahier des doléances delle trascurate di genere).

Ai miei occhi, invece, è la più spavalda ed elegante continuatrice, oltreoceano, del big bang dada-surrealista (il vertice, forse, «Artillery Boxes»: perfetto equivalente visivo delle Variazioni Belliche, in poesia, di Amelia Rosselli: altro pollone del frondoso albero surrealista); l’attento percorso espositivo di Julia Bryan-Wilson ne valorizza i trascurati collage su carta, nei quali la radice schwittersiana è almeno altrettanto evidente, infatti, di quella picassiana. Ogni suo assemblage, d’ineffabile nitore compositivo, delle suppellettili e delle passamanerie borghesi fa un uso malioso e perverso che tollera un solo termine di paragone: quello con le poupées oscene, e appunto elegantissime, di Hans Bellmer. Ove nascesse un movimento per i diritti degli arredi, dopo quelli di piante e animali (chissà non sia la volta che lancio un’idea per la prossima Biennale...), gli ibridi lignei di Nevelson desterebbero più scandalo delle orge, un po’ risapute, di Hermann Nitsch.

Quando pochi giorni dopo mi sono intrufolato alla pre-pre-preview, alla Gnam di Roma, della prima personale romana («Surplace» fino al 9 settembre) di Chiara Bettazzi (irsuta toscana del ’77 che solo ora si vede finalmente riconosciuta in gran parte grazie al puntiglioso insistere di Saretto Cincinelli che l’aveva suggerita a un paio di collettive nella stessa storica cornice, dove mi aveva folgorato; sicché l’avevo poi inseguita, tra un lockdown e l’altro, nei luoghi appartati e un po’ misterici che più le si confanno: come il Castello di Ama nel Chianti o la Villa Romana nell’hinterland fiorentino, per non parlare del suo studio-antro-tana post-industriale, ben nascosto alla periferia di Prato), perentorio mi ha investito un lampo di riconoscimento.

Per la verità ignoro se Nevelson, nello specifico, faccia parte del suo album di famiglia (e nemmeno, se è per questo, di quello di Flavio Favelli: altro prediletto che ancor più dritto, ora, mi pare uscito dal suo grembo), ma a ragione cita Cincinelli il Breton di Crise de l’objet: per il quale «l’oggetto, per compiuto che sia, ritorna ad un’interrotta serie di latenze che non gli sono peculiari ed esigono la sua trasformazione». Ecco, trasformazione è la parola chiave. Al primo sguardo non si può negare che trasmettano un’aura di memento mori (la malinconia di Schwitters, tanto incurabile quanto divertita) questi insiemi, sempre composti con la massima eleganza (composti: come si dice, appunto, di un cadavere), di materiali preteriti e afflitti, talora bruciacchiati e sempre velati di patine postmorandiane. Ma giustamente l’artista insiste sulla ri-composizione che ogni volta comporta il ri-assemblage dei medesimi ossi di seppia, ciascuno dei quali pervicace si riferisce alla sua memoria onirica (il titolo della retrospettiva di Nevelson, «Persistence», si adatta altrettanto al suo lavoro).

Come ha scritto Ilaria Bussoni, i suoi oggetti sono al tempo stesso «finiti e riattraversati da nuova vita»: il che è tanto più vero per queste 36 fotografie di grande formato che non riproducono gli assemblage ma (spesso con l’interazione dell’artista, della quale s’intravedono braccia, mani talora allusivamente guantate o fasciate, con oggetti dato il contesto non rassicuranti: coltelli, forchette, strumenti odontoiatrici; a tratti, mosso e di scorcio, persino un frammento di volto) compongono quello che Cincinelli definisce un paradossale «film immobile». A proposito di Nevelson Carla Lonzi parlava di «distruzione e trasfigurazione». E in effetti lo confesso: quando ho visto le braccia di Bettazzi levarsi verso l’alto, brandendo fiera, una volta di più, i suoi persecutori cadaveri squisiti, a venirmi in mente è stato il Raffaello dei Musei Vaticani.

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