Il mondo di Stonehenge

Pregi e difetti della mostra in corso al British Museum, tra un catalogo discutibile e la fortunata eterogeneità dei manufatti presentati

Stonehenge al tramonto © English Heritage
David Ekserdjian |  | Londra

Uno dei motivi che mi ha sempre spinto a recensire le mostre e i loro cataloghi, come anche i libri di storia dell’arte (spesso molto costosi per un povero professore), è il fatto di poter beneficiare gratuitamente di una copia. Ora, purtroppo, molti musei hanno avuto l’idea (a loro avviso, immagino, geniale) di mandare invece un pdf. Nel caso di un’istituzione come il British Museum, che non muore di fame, questa mancanza di generosità non può essere perdonata sul piano economico. Inoltre, dato che il biglietto per la mostra «Il mondo di Stonehenge» (dal 17 febbraio al 17 luglio) costa 22 sterline, mentre il catalogo nella forma tascabile ne costa 25, una recensione che incoraggia due o tre visitatori in più giustificherebbe il dono di un catalogo gratuito.

Fortunatamente, data la noia di leggerlo sullo schermo del computer, studiare il volume The World of Stonehenge di Duncan Garrow e Neil Wilkin è stato istruttivo per chi scrive, e sono convinto che lo sarà per tutti, a eccezione forse di alcuni specialisti di archeologia preistorica. Il volume illumina le ossessioni degli specialisti in questa materia o almeno dei due autori. I quali ad esempio non amano la formula «a.C.», che compare quasi esclusivamente nelle didascalie, mentre nel testo si legge «… anni fa». Inoltre sono molto diffidenti non solo intorno ai periodi cronologici come Mesolitico, Neolitico, Età del Bronzo, che rischiano di semplificare una storia più complessa, ma anche della nozione dei progressi della civilizzazione.

Tradizionalmente si considera l’agricoltura come un passo in avanti nei confronti dei cacciatori-raccoglitori, ma qui invece si celebra l’innocenza dei cacciatori-raccoglitori che diventano precursori eroici degli hippies degli anni Sessanta in combinazione con i Verdi di oggi. Nello stesso tempo ci si rende conto del fatto, e Garrow e Wilkin non lo tacciono, di essere obbligati a confrontare incertezze di tutt’altro livello rispetto a quelle di periodi incomparabilmente più recenti.
Il Pendente solare di Shropshire (ca 1000-800 a.C.)
Negli studi sul Rinascimento, ad esempio, vi sono spesso pareri divergenti sull’attribuzione di opere o a un certo maestro o alla sua bottega. Qui, al contrario, viene esposta una straordinaria Mano in bronzo proveniente da Berna (Svizzera), che alcuni identificano come la prima mano protesica, mentre altri la interpretano come un simbolo di potere paragonabile alla «main de justice» che faceva parte della regalia dei re di Francia dal Medioevo in poi. La distanza che separa queste due interpretazioni è abissale.

Allo stesso modo sono quasi adorabili le nostre guide quando ammettono di non aver la minima idea di come a Stonehenge si potessero innalzare sulle pietre verticali quelle orizzontali soprastanti dal peso di svariate tonnellate. Comunque sia, avendo lodato i meriti, bisogna ammettere che questo splendido libro non fa nemmeno finta di essere un catalogo della mostra nel senso tradizionale, soprattutto perché non fornisce indicazioni su quali oggetti sono presenti al British Museum fino al 17 luglio.

Nel caso dei due pezzi più rinomati in esame, il Disco di Nebra e il Carro solare di Trundholm, il primo ha fatto il viaggio da Halle in Germania a Londra, mentre il secondo non si è mosso dal Nationalmuseet a Copenaghen in Danimarca: a questo proposito il silenzio del libro è totale. Ancora più curioso è che alcuni reperti in mostra non sono illustrati né tantomeno discussi nel catalogo, come tre singole figure in legno da Roos Carr nello Yorkshire, che accompagnano due dei loro compagni su una barca che vengono riprodotti e indagati invece a pagina 219 del catalogo.

Purtroppo, e forse soprattutto al British Museum, la scheda dedicata a un singolo oggetto è diventata una specie in via di estinzione, vuoi perché forse sembra troppo superficiale e banale agli storici allergici alla brevità, vuoi perché gli editori temono che renda il catalogo già «scaduto» dopo la chiusura della mostra. In ogni caso si avverte subito l’assenza di una considerazione seria su un manufatto importante come lo stupendo Cono dorato o «cappello» di Avanton da Saint-Germain-en-Laye: per informarsi del restauro parziale dell’opera e in merito alla probabilità che all’origine venisse completato da una tesa in basso, bisogna leggere Wikipedia invece del catalogo della mostra.
Il Disco di Nebra (ca 2100-1700 a.C.)
Per tutti i britannici il cerchio di pietre gigantesche di Stonehenge distante circa 10 km dalla città di Salisbury nel Wiltshire è non meno riconoscibile del Colosseo per un italiano. La familiarità di Stonehenge, che data circa al 2500 a.C., giustifica il titolo della mostra, anche se l’esistenza di un collegamento tra gli oggetti presentati e il monumento è interpretata in un modo che si può definire generoso, per quanto riguarda cronologia e geografia. A dir la verità dobbiamo essere grati per questa opportunità perché consente di veder radunati oggetti inglesi, scozzesi (molti dalle Orcadi) e irlandesi dalla Danimarca, dal Portogallo e dall’Italia, da dove proviene una stupenda stele della Valcamonica.

Quest’ultimo rilievo sottolinea l’ennesima qualità della mostra, cioè il suo successo nell’aggiungere pezzi di dimensioni imponenti accanto ai tradizionali piccoli gioielli in materiali preziosi. È stato possibile anche presentare parte di un cerchio in legno ritrovato nel mare a Holme-next-the-Sea nel Norfolk nel 1998, subito soprannominato «Seahenge». Grazie alla datazione degli anelli degli alberi di rovere che lo compongono, si evince che fu costruito nella primavera o nell’estate del 2049 a.C.

I progressi scientifici e soprattutto l’importanza delle analisi del Dna, in combinazione con le scoperte fatte col metal detector, sottolineano che la visione intellettuale e materiale del «mondo di Stonehenge» si è trasformata negli ultimi decenni. Il Disco di Nebra, simbolo della mostra, fu ritrovato solo nel 1999, mentre il capolavoro che chiude il percorso, il Pendente solare di Shropshire, è stato rinvenuto nel 2018 e acquisito dal British nel 2020, sicuramente dopo l’inizio del progetto espositivo.
Il Cono dorato o «Cappello di Avanton» (ca 1500-1200 a.C.)

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