Prima mostra italiana per Baloji

A Palazzo Pitti viene offerta una rilettura del colonialismo più etica attraverso i lavori dell'artista congolese

Particolari dell'allestimento di «Fragments of Interlaced Dialogues. Subversive classifications», Palazzo Pitti, 2022
Laura Lombardi |  | Firenze

All’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti (fino al 26 giugno, poi dal 6 settembre al 27 novembre) è ospitata la mostra «Fragments of Interlaced Dialogues. Subversive classifications» del fotografo congolese Sammy Baloji, a cura di Lucrezia Cippitelli, Chiara Toti, Justin Randolph Thompson e il BHMF collective. Baloji, alla sua prima personale in Italia, presenta qui l’esito di un progetto avviato nel 2016, a partire da collezioni di vari musei, tra cui, appunto, la reggia dei granduchi medicei.

La mostra, portata avanti da artista e curatori in modo veramente corale, propone dunque, come il titolo stesso suggerisce («Classificazioni sovversive»), una rilettura del colonialismo più eticamente corretta (rispetto a quanto le narrazioni, retaggio della tratta transatlantica degli schiavi e dello Scramble for Africa della fine del XIX secolo, abbiano tramandato) legata all’affermazione del concetto di nazione europea e quindi a classificazioni piuttosto esotiche e etnografiche dei manufatti provenienti dalle colonie.

Artista ma anche ricercatore, Baloji, che vive e lavora tra Lumumbashi e Bruxelles, non si rivolge al colonialismo come qualcosa di ormai storicizzato, ma che è invece «in the continuation of that system». Nel percorso della mostra, allestita seguendo la suggestione dell’archivio, elemento fondante la pratica artistica di Baloji, i suoi lavori, due dei quali concepiti site specific, si intrecciano a opere africane e a documenti, tra cui carteggi. Questi ultimi chiariscono la natura dei rapporti esistenti nel Cinquecento tra i sovrani africani e i regnanti europei, più equilibrata e di rispetto, come si coglie ad esempio dal tono della lettera tra il re del Kongo Alfonso I e quello portoghese, Manuel I.

«The crossing» è un tappeto lungo 88 metri che si snoda quale fil rouge nelle varie sale della mostra e che Baloji vuole veder calpestato e mutare nel corso dei mesi dell’esposizione. Il tappeto reca a rilievo le decorazioni geometriche presenti in altre sue opere, ma in questo caso sono le stesse che decorano i quattro olifanti cinquecenteschi in avorio intarsiato esposti nell’ultima sala. Questi preziosi manufatti, tre provenienti dal Tesoro dei Granduchi e uno dal Museo delle Civiltà di Roma, erano giunti in dono a Cosimo I de Medici e sono citati nell’ inventario mediceo del 1553, tanto da risultare tra i più antichi oggetti africani presenti in collezioni europee.

L’arrivo a Firenze degli olifanti, trombe destinate a un uso cerimoniale, è legato alla moglie di Cosimo, Eleonora da Toledo, ma anche alla presenza di, Enrico, figlio di Alfonso I, consacrato primo vescovo dal papa mediceo Leone X: queste e altre relazioni sono spiegate dalla timeline presente nella sala, che proviene da un altro progetto di Baloji ma che diviene qui parte integrante della installazione. L’elemento dell’asola anch’essa in avorio, per «indossare» al collo gli olifanti suonando, è probabile frutto di una ibridazione occidentale, connessa appunto alla natura del dono.

La seconda installazione site specificdi Baloji è «Gnosis», ispirata alla Sala delle Carte geografiche di Palazzo Vecchi (compreso il mappamondo al centro), dove Cosimo I aveva espresso il suo interesse scientifico per la geografia, le scienze naturali, i commerci, raccogliendo negli armadi oggetti provenienti dai territori cui le mappe dipinte sulle ante si riferivano. In questo modo Baloji richiama anche più in generale il tema del collezionismo delle wunderkammern (camere delle meraviglia, dove era l’unione di naturalia et mirabilia) nelle quali erano presenti, fin dal Cinquecento, numerosi manufatti africani provenienti dal regno del Kongo (ora Repubblica democratica del Congo e Angola), apprezzati per il loro valore estetico.

Al tempo stesso Baloji, giocando sul concetto di spazi di classificazione, ribadisce quanto l’Africa esista soprattutto nell’immaginario europeo come narrazione costituita dall’esterno. In un’altra sala è richiamato l’episodio molto significativo della «Mostra di Arte negra» alla Biennale di Venezia del 1922, dove le sculture della collezione Brissoni, ora al Museo di Antropologia e Etnologia dell’Università di Firenze, non erano esposte con interesse etnografico, ma quali opere d’arte. E se Carlo Anti, uno dei curatori della Biennale, annotava quei manufatti soprattutto per il loro aspetto ingenuo, Ugo Ojetti era stato invece più attento nel sottolineare le suggestioni importanti offerte agli artisti della fine del secolo XIX e poi delle avanguardie storiche per la ricerca di un linguaggio contemporaneo.

Altre opere di Baloji, sempre caratterizzate dalla visione geometrica, quali il telaio «Goods Trades Roots» e le lastre in bronzo «Negative of Luxury Cloth» , rimandano ai lavori preziosi in rafia, giunti in Europa tramite i mercanti portoghesi (alcuni provenienti dalla collezioni del gesuita Athanaius Kircher, conservate al museo Pigorini di Roma, ora Museo delle Civiltà di Roma) e ribadiscono quella complessità di scambi più orizzontali tra Africa e Europa, che meritano ad oggi maggior consapevolezza e approfondimento.

© Riproduzione riservata Particolari dell'allestimento di «Fragments of Interlaced Dialogues. Subversive classifications», Palazzo Pitti, 2022
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