Come fotografare questo Medioevo prossimo venturo

Dopo un 2021 ancora di transizione, l’unico dato di vero e indiscutibile rilievo è la valanga di esposizioni dedicate alle donne fotografe, cui ora si aggiungono i quesiti riguardanti i reportage di guerra

Margaret Bourke-White lavora in cima al Chrysler Building di New York nel 1934. Foto Oscar Graubne
Walter Guadagnini |

Dopo la peste, la guerra, benvenuti nel Medioevo prossimo venturo, alla faccia della generazione che non aveva mai visto guerre (sempre che avesse girato la testa dall’altra parte quando si parlava di Rwanda, ex-Jugoslavia, Iraq, Crimea…). E con la guerra, ecco di nuovo il corollario di domande, questioni, richiami, che investe la fotografia in modo particolare: perché la pandemia metteva davvero tutti sullo stesso piano (e non era fotogenica; come dice il bravissimo Luca Campigotto, aduso a fotografare luoghi vuoti in giro per il mondo, «avevo tutte le piazze d’Italia vuote e mi sono venute fuori le foto peggiori, a certe ore e con certe luci una piazza vuota non funziona, e se è sempre vuota non è più una visione sorprendente»), mentre la guerra costringe a delle scelte, spesso molto scomode (pur essendo ahimè terribilmente fotogenica).

Quindi, 2021 anno ancora fotograficamente di transizione (ma tendenzialmente abbastanza horribilis), caratterizzato, da un punto di vista operativo, più che altro dal costante stop and go del periodo, con musei, spazi espositivi, fiere e festival che cercavano disperatamente il loro pubblico un po’ fisicamente un po’ virtualmente, con il terrore di averlo perso definitivamente, senza più lo slancio eroico della prima onda, un po’ tutti stanchi e rintronati, così come la maggior parte dei fotografi, sempre con un piede sulla scaletta di un aereo che poteva essere cancellato da un momento all’altro (ché la fotografia è spesso pratica transumante).

Unico dato di vero e indiscutibile rilievo, l’ormai inarrestabile valanga di esposizioni dedicate alle donne fotografe (di cui anche chi scrive è correo), marea sulla quale una piccola riflessione sia concessa: c’è, con tutta evidenza, un aspetto di moda, di banalissimo sfruttamento di un tema che funziona in termini di riconoscibilità e di pubblico (anche se bisognerebbe poi analizzare i dati nel dettaglio), in totale assenza di interesse per il fondo della questione, vale a dire il riequilibrio nella scrittura di una storia, in questo caso quella della fotografia.

Però, per l’appunto, questa congiuntura sta facendo emergere una serie di figure meritevoli dal punto di vista del linguaggio, dell’opera, a prescindere dal genere (o meglio, sinora sottostimate proprio per questioni di genere), e questo è un dato indiscutibilmente positivo, perché, al di là di ogni altra considerazione, è ciò che si richiede alla cultura: essere sempre ricerca, arricchimento, messa in discussione delle idées reçues (magari evitando di sostituirle con altre, non più intelligenti ma solo più nuove e più rispondenti allo Zeitgeist). Allora, come diceva in sede di presentazione Fabio Lazzari, uno dei promotori insieme a Monica Fantini della mostra «Essere Umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo» tenutasi a Forlì, «nel migliore dei mondi possibili questa mostra non avrebbe senso di esistere, ma nel nostro, che tale non è, può essere un tassello utile per guardare al passato con occhi diversi, aggiungendo delle conoscenze».

Però adesso c’è la guerra e tanti fotografi sono già lì, mentre noi qui a casa dibattiamo, come sempre, ma come è giusto continuare a fare, se sia lecito o meno mostrare certe immagini, che cosa fare nei confronti dei singoli autori e delle istituzioni del Paese aggressore in termini di pubblicazioni, esposizioni (con il complicatissimo rapporto con il termine di censura, che a nessuno piace utilizzare ma che è parte integrante del vocabolario bellico, piaccia o no), come difendersi dai falsi (anche fotografici) costruiti dagli uffici della propaganda delle nazioni in conflitto. Questioni che investono la fotografia dalla sua nascita e che non hanno una risposta univoca, buona per tutte le stagioni e per tutte le circostanze, e delle quali speriamo di poter tornare a discutere solo accademicamente nel più breve tempo possibile, ma che oggi fanno tristemente parte della nostra quotidianità.

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