Alessandra Di Castro, studiosa per fare bene l’antiquaria

Discendente da una delle famiglie di antiquari più prestigiose di Roma, presidente dell’Associazione Antiquari d’Italia e della Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, racconta la sua storia, com’è cambiato un mestiere diventato globale e più esigente e quali leggi e strumenti vorrebbe per diventare più europei

Da sinistra, Alessandra Di Castro, Christoph Radl, Marie-Amélie Carlier, Nicolas Kugel e Martina Mondadori a New York nel 2018  in occasione della mostra «Cabana Curates. A Journey Through Antique Treasures From Brimo, Di Castro, Kugel» Alessandra Di Castro con la figlia Elisa De Palma
Alessandro Allemandi |

Reduce dalla partecipazione a Londra a Frieze Masters (13-17 ottobre) nella sezione «Stand Out», che ha riunito per la prima volta nove antiquari da ogni parte del mondo, Alessandra Di Castro, oltre a essere erede di una delle famiglie di antiquari più importanti d’Italia, dal dicembre 2019 è anche la presidente dell’Associazione Antiquari d’Italia (Aai). Alla scadenza del suo mandato, l’abbiamo intervistata.

Che cosa dice della dinastia «Di Castro»?
Siamo attivi nel mondo dell’antiquariato da quattro generazioni; con mio fratello Alberto appartengo all’ultima generazione. Mio nonno, Alberto Di Castro, un grande innovatore, si spostò da Borgo e aprì un negozio in via del Babuino a Roma, la famosa strada degli antiquari, oggi trasformata. Negli anni Cinquanta comprava alle grandi aste internazionali, allora frequentate esclusivamente dai mercanti d’arte, soprattutto in Inghilterra che stava «dismettendo l’impero», opere e oggetti provenienti dal Grand Tour che lui riportava in Italia. La nostra attività si è sempre connotata per la valorizzazione di quello che si può definire il «fasto romano», perché non c’è mai stata una vera specializzazione in una tipologia particolare, ma sono stati sempre il gusto e la grande qualità che hanno indirizzato le nostre scelte.

Ci racconta quali sono stati la sua formazione e il suo percorso professionale?
Ho iniziato l’attività a fianco di mio padre Franco alla fine degli anni Ottanta, mentre studiavo all’Università. Nel 2009, con una mostra di intagli di epoca neoclassica, cammei e oggetti in pietra dura, ho aperto la mia galleria di piazza di Spagna 4, sempre con il sostegno di mio padre. Oggi espongo al Tefaf di Maastricht, dove siedo anche nel board, partecipo a Masterpiece di Londra e alla Biennale dell’Antiquariato di Firenze. Quest’anno ho partecipato a Frieze Masters, la prima fiera d’arte che si è tenuta a Londra dopo la pandemia. Una tappa fondamentale della mia attività è stata una mostra all’Academy Mansion di New York nel 2015, un progetto congiunto con due grandi gallerie francesi, Kugel e Brimo de Laroussilhe. Fino al 2019 abbiamo condiviso uno spazio a Madison Avenue, organizzando mostre ogni quattro mesi, in concomitanza con il calendario artistico di New York. Un’altra esperienza nuova è stata la condivisione di uno spazio espositivo con antiquari internazionali, curato da Philip Hewat-Jaboor nel padiglione Masterpiece di Hong Kong, all’interno della Fine Art Asia nell’ottobre 2019. La mia attività professionale si è perfezionata con molte altre esperienze.

Quali?
Soprattutto, non ho mai smesso di studiare, dalla mia laurea alla Sapienza, seguita poi da vari studi all’estero: allo Study Center presso il Victoria and Albert Museum a Londra mi sono diplomata in arti decorative e all’École du Louvre ho fatto vari corsi di specializzazione. Sono molto grata a mio padre e alla mia famiglia per avermi dato questa educazione, per non aver mai risparmiato in libri e viaggi, spingendomi a conoscere e capire quello che accadeva altrove, ma anche a studiare, approfondire, aggiornarmi sempre. Quest’anno ho perfino tenuto un corso per la laurea magistrale alla Sapienza di Roma di Connoisseurship delle arti decorative dal XVI al XIX secolo.

La sua prima mostra su cammei e intagli è stata pioneristica.
All’epoca questa forma d’arte era considerata un genere «minore», tra gioiello e scultura, ma gli intagli di pietra dura hanno una storia antica e gloriosa di grande collezionismo dal mondo antico fino all’Europa delle corti del Rinascimento e naturalmente anche oltre. Nel tempo sono diventati un campo centrale nello studio delle arti decorative e recentemente sono uscite pubblicazioni scientifiche, studi, approfondimenti, di molte grandi collezioni pubbliche e private, non solo dei grandi musei.

Qual è il confine tra il mestiere di antiquario e quello di studioso per la famiglia Di Castro?
Ho sempre avuto chiaro un punto al quale anche mio padre teneva molto: il confine netto tra mercante e studioso, due mestieri molto diversi. Io ho scelto di fare l’antiquaria. Ritengo l’approfondimento storicoartistico funzionale alla mia attività. Studiare e approfondire rappresentano una strada maestra, ma ho sempre avuto chiaro il confine tra i mestieri dell’arte.

È anche collezionista?
Non mi definirei una collezionista propriamente detta, però ho sempre comprato gli oggetti con passione. Ho sempre comprato quello che amavo.

Si può descrivere un «Gusto Di Castro»?
Si tratta di una costante che ha sempre caratterizzato le nostre scelte. Nel mio caso, la passione per le pietre, i marmi colorati, le gemme incise, i cammei, i mosaici minuti, declinati in epoche e generi diversi. Ho appena partecipato a Londra a Frieze Masters nella sezione «Stand Out», dove il curatore Luke Syson, direttore del Fitzwilliam di Cambridge, ha saputo raccontare in una chiave attuale un gusto all’interno del quale si iscrive a pieno titolo anche quello «Di Castro»: il mosaico di Castellini, eseguito nello studio del Mosaico Vaticano alla fine del Settecento con la sua magnifica cornice di bronzo dorato di Paolo Spagna, è stato esposto accanto a una coppia di quadri, anch’essi a mosaico, della prima metà dell’Ottocento del virtuoso romano Clemente Ciuli, con due ritratti del satiro e della satiressa di una qualità davvero sorprendente. E poi oggetti più piccoli raccolti in una vetrina di objets de curiosité. Si tratta di un gusto collezionistico che ho cercato di indirizzare con le mostre e i cataloghi che ho prodotto negli anni nella mia galleria, affidandomi agli studiosi specialisti di ogni settore.


Perché ha partecipato a Frieze Masters, e che cosa l’ha colpita?
Mi sono entusiasmata al progetto, perché la sezione di arti decorative, «Stand out», è stata affidata a un grande studioso di questi argomenti, Luke Syson, per anni a capo della sezione di arti decorative del Metropolitan dove aveva curato l’ampliamento delle sale inglesi. In questa vicenda mi ha colpito la sinergia tra le istituzioni culturali e il mercato dell’arte: un direttore di museo che cura la sezione di una fiera. E l’ha curata secondo una tradizione antica in Inghilterra, che risale alla costituzione del Victoria and Albert alla metà dell’Ottocento, nato proprio per promuovere le arti e le industrie inglesi. È per questo che a vent’anni sono partita per Londra, proprio per studiare le arti decorative allo Study Centre: c’era un pragmatismo nell’approfondimento, nella valorizzazione delle arti decorative che in Italia mancava a livello universitario. Questa è una grande forza che hanno gli inglesi e che si concretizza in progetti come questo. A Frieze Masters, negli spazi dove i galleristi di arte moderna e contemporanea presentavano le loro opere, si snodava la sezione in cui gli antiquari esponevano ceramiche del Cinquecento, sculture dell’Ottocento, vetri dipinti, oggetti d’arte orientale e, nel mio caso, marmi e sculture. Il curatore ha saputo dare un’interpretazione estetica nuova e contemporanea: ho trovato formidabile l’idea compositiva di uno storico dell’arte per un percorso tra mercanti con caratteristiche così diverse.

Il palcoscenico delle grandi fiere internazionali ha cambiato il collezionismo e il mestiere dell’antiquario?
Il collezionista oggi è più consapevole nel formare le sue convinzioni perché, frequentando le grandi fiere e le aste internazionali, oggi di facile accesso grazie ai cataloghi online, può fare un confronto immediato tra le molte opere che gli vengono proposte. È un lungo processo di trasformazione che va avanti da almeno trent’anni e che ci ha proiettati dalle pareti «rassicuranti» di una galleria agli spazi mutevoli di una fiera. Questo cambiamento ha determinato una trasformazione ma anche un miglioramento nel nostro mestiere: la fiera è un luogo virtuoso perché permette in tempo reale un dialogo entusiasmante tra mercanti, collezionisti, studiosi e istituzioni. Credo di essere andata nella direzione giusta quando a vent’anni ho capito che il mestiere si dirigeva verso l’approfondimento dell’opera d’arte e la sua comunicazione. L’informazione al cliente oggi deve essere il più possibile approfondita e scientificamente precisa. Nel vetting delle fiere, i comitati di giudizio delle opere sono molto esigenti e alla lunga portano a una selezione degli stessi antiquari a cui è imposto di stare al passo con i tempi. Il margine di errore nelle grandi fiere internazionali oggi è dunque molto basso e il cliente collezionista può acquistare con un grado di affidabilità che non ha riscontro nel mondo delle aste.

In un mercato diventato globale il collezionismo si è aperto a nuove scelte estetiche?
C’è anche un altro aspetto che è profondamente mutato negli ultimi anni: il modo di vivere. Nella mia attività non mi rivolgo esclusivamente ai collezionisti, ma anche a clienti che vogliono arredare le proprie case. Le fiere internazionali propongono il crossing tra epoche e forme d’arte diverse, in cui a essere esaltato non è più il contesto ma la valorizzazione della singola opera. Per dirla meglio, è cambiato il concetto di display, la filosofia dell’arredamento, come avrebbe detto il professor Mario Praz. Non vale più il contesto originario, ma quello di approdo. Questo ha portato noi antiquari a selezionare oggetti molto speciali e rari, una strada peraltro già tracciata da mio padre e prima da mio nonno: l’oggetto d’arte, l’arredo, la scultura, il mobile presentati come un’installazione in un contesto più rarefatto e distillato. Il nuovo pubblico cosmopolita, italiano e non, è andato sicuramente in questa direzione.

Una diversa rappresentazione dell’arte antica obbliga gli antiquari a essere anche curatori e creativi.
Anche tra i mercanti d’arte ci sono le avanguardie, i più intuitivi anticipano i tempi con le loro scelte.

Sta cambiando anche il ruolo della galleria nei confronti del collezionista?
La partecipazione alle fiere ha come scopo ultimo quello di portare questa clientela colta e cosmopolita nello spazio della galleria. Quando il cliente, conosciuto in mostra, mi viene a trovare nei miei spazi in piazza di Spagna, è tutta un’altra cosa.

Che cosa è cambiato dopo la pandemia?
C’è un ritorno al piacere di andare nei negozi degli antiquari. Tanti colleghi hanno riaperto con mostre e cataloghi interessanti che avevano messo in cantiere da lungo tempo e che hanno visto la luce ora, nell’autunno del 2021. Per questa rinascita, ho deciso di presentare una mostra a dicembre con pochi, straordinari capolavori dell’arte italiana, in parte notificati, per richiamare clienti stanchi del digitale. 

Ci descrive il progetto che intende realizzare?
Esporrò tra altre opere una coppia di argenti considerati tra i capi d’opera dell’argenteria europea del Cinquecento, una brocca e un grande piatto da parata fusi, sbalzati e cesellati da Antonio De Castro, orafo portoghese attivo a Genova. Sono oggetti rarissimi, tra i pochi esemplari conservati e documentati di un periodo artistico interessante come quello genovese del tardo Cinquecento. Allora Genova era un emporio delle arti, una babele favolosa di culture e tradizioni diverse, di scambi commerciali con l’Oriente attraverso il Mediterraneo. Tutto questo è raccontato in questi due oggetti istoriati. 

La mostra tratterà quindi di multiculturalismo, di scambi, di un mondo globale ante litteram.
Un tema attuale, rispetto alla vita di oggi in cui siamo molto mobili, in un mondo che cambia e che ha fatto degli scambi culturali e commerciali il suo centro. L’Italia oggi fa parte dell’Europa e ho l’impressione che avrà un nuovo ruolo di protagonista. Siamo in una nuova fase che probabilmente porterà a una crescita economica che si giocherà in un ambito non più nazionale, ma profondamente europeo.

Quali sono le caratteristiche del collezionista italiano di arte antica?
In Italia c’è sempre stata una clientela attenta, colta, sofisticata e molto appassionata di ciò che è stato commissionato, creato e prodotto dalle corti italiane che nei secoli passati avevano legami di parentela e scambi costanti con le corti europee. Diciamo che il pubblico italiano è aggiornato e cerca nelle proprie radici un gusto e una qualità che oggi si sono affermati anche a livello internazionale.

Lei è presidente dell’Aai (Associazione Antiquari d’Italia), con un mandato in scadenza a dicembre. Qual è il suo punto di vista, anche all’interno del contesto europeo, sulle «questioni aperte» relative al non semplice rapporto fra esigenza di tutela ed esigenza di circolazione delle opere d’arte, e al rapporto, anch’esso non sempre semplice, fra Stato e operatori del settore?
L’Italia indubbiamente merita un discorso a parte perché storicamente è stata serbatoio di acquisizioni e anche, purtroppo, di spoliazioni rispetto ad altri Paesi europei. La tutela è un faro che deve essere condiviso da tutti noi. Però l’Italia, pur nella sua unicità, fa parte di una comunità più vasta, appunto quella europea, che della libera circolazione dei beni e delle cose fa il suo fondamento. Io vedo un forte disallineamento. Occorre una legislazione più moderna, che contempli da un lato la nostra storia, ma, dall’altro, anche il nostro futuro. Tempi certi e semplificazione burocratica sono questioni non più rinviabili, a tutela della parte sana del mercato, della trasparenza e anche forse della credibilità dell’Italia sotto questo aspetto. Lo sforzo più importante da fare adesso, per il futuro, e che richiede maggiore impegno e coraggio, è distinguere le opere fondamentali della nostra storia artistica da quelle più ordinarie, di cui già esistono numerose testimonianze in collezioni pubbliche, prevedendo per queste ultime, in particolare, delle forme di circolazione più snelle. Ferma restando l’esigenza di tutela per tutte le opere che hanno un interesse culturale eccezionale. In tal senso, in questi due anni di presidenza dell’Aai, si sono visti anche interventi molto positivi da parte del Ministero della Cultura (MiC), in particolare del ministro Franceschini. Come la legge dell’agosto 2017 con cui sono state introdotte in Italia le soglie di valore, che hanno poi avuto vicende alterne e molto complesse, conclusesi con l’effettiva entrata in vigore delle soglie di valore a pieno regime nel 2020. Nonostante in Italia vi sia adesso un’unica soglia corrispondente a 13.500 euro, ritengo comunque che l’introduzione del concetto di «soglia di valore» sia stato un passo importante nella direzione della circolazione, della tutela e della semplificazione. È bene poi sottolineare come, anche con le soglie di valore, lo Stato conservi (giustamente) piena cognizione di quello che viene esportato con autocertificazione, potendo intervenire, anche per i beni sotto soglia, laddove ritenga che l’opera presenti criteri di eccezionalità. Il MiC dispone poi da diversi anni di un sistema informatizzato che permette il monitoraggio continuo da parte delle Soprintendenze e di altri organi di sorveglianza di ciò che viene presentato a livello nazionale sia per l’importazione sia per l’esportazione. Questo comporta per gli utenti un altissimo grado di responsabilizzazione. Introdotto, finalmente, anche in Italia il concetto comunitario di soglia di valore, auspichiamo a questo punto un avvicinamento della «soglia italiana» (13.500) alle soglie di valore vigenti nel resto dell’Unione Europea, ben oltre i 13.500 euro e articolate su varie tipologie merceologiche, dove i dipinti hanno un valore, le sculture un altro e così via, avvicinando così il modello italiano a quello comunitario, certamente più articolato e performante del nostro.

E per quanto riguarda la burocrazia?
Fra i traguardi da raggiungere vi è poi quello connesso alla necessità di garantire all’utenza maggiore certezza sulle tempistiche per l’espletamento delle pratiche burocratiche per le opere in esportazione. Questo non significa tempi più brevi, ma solo tempi certi. È un’esigenza che tutti noi componenti del mercato dell’arte sentiamo fortissima. E bisogna rendere accessibile e consultabile pubblicamente, con un database online, l’elenco di tutte le opere che lo Stato ha vincolato almeno dal 1939 a oggi, in un’ottica di trasparenza e maggiore garanzia per chi vende e per chi compra. Bisogna inoltre avere consapevolezza del fatto che portare avanti leggi troppo ostative alla fine non fa altro che scoraggiare l’utente (vessato da mille cavilli burocratici), non solo favorisce il proliferare del mercato clandestino, che è il grande nemico del mercato sano e ufficiale che l’Aai rappresenta con uno Statuto molto rigido e con criteri di ingresso molto selettivi, ma spinge anche i più grandi collezionisti verso il mercato dell’arte estero con la conseguente perdita di indotto per il mercato dell’arte in Italia e per l’erario.

Il mercato clandestino è combattuto con sufficiente energia?
Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (Tpc) fa scuola in tutto il mondo, in Italia abbiamo un’istituzione che rappresenta l’eccellenza. Il Sue, il Sistema unico informativo degli Uffici Esportazione, introdotto una decina d’anni fa, ha lavorato in quest’ottica di trasparenza, dove il Ministero della Cultura opera a stretto contatto con il Tpc. È un sistema molto efficiente. Nell’ottobre del 2019 ho partecipato a un convegno alla Scuola ufficiali dei Carabinieri di Roma sulla protezione del Cultural heritage, con i rappresentati delle dogane, delle case d’asta, i rappresentanti dell’Unesco ecc. Il mio intervento, intitolato «Due diligence and compliance», esponeva la prospettiva dell’antiquario in Italia, sulla quale ci fu convergenza su tutti i punti. Mi sento di poter dire che in Italia l’attività investigativa e di tutela è all’avanguardia.

Lei è anche presidente della Fondazione per il Museo ebraico di Roma. Può descrivere questa istituzione e i suoi progetti?
All’indomani della Giornata europea della cultura ebraica, il 10 ottobre 2021, abbiamo organizzato un convegno su Dante e un poeta straordinario della fine del Duecento, Immanuel Romano. Il convegno, in collaborazione con l’archivio storico della nostra Comunità Ebraica, ha trattato degli ebrei a Roma tra Medioevo e Rinascimento con particolare attenzione alla poesia. È un’attività che porto avanti dal 2012, dopo la scomparsa di mia sorella Daniela, direttrice del Museo ebraico di Roma per dieci anni. La Comunità ebraica mi chiese di portare avanti il suo lavoro, che comportava anche il proseguimento dello studio e della catalogazione del patrimonio. Dal 2012 mi occupo attivamente, come volontaria, di questo impegno di grande responsabilità. Nel 2019 è stata infatti costituita la Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, di cui io sono presidente del consiglio di amministrazione. Quella ebraica di Roma è una delle comunità più antiche in Europa, risale al II secolo a.C., con una storia millenaria fatta di personaggi straordinari e di vicende piene d’intrecci con la corte pontificia. Abbiamo realizzato mostre importanti, come quella con i Musei Vaticani nel 2017, «La Menorà. Culto, storia e mito», curata da me, Francesco Leone e Arnold Nesselrath, sotto la direzione di Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani, con cui è nata una collaborazione costante e proficua. Nel 2019 abbiamo fatto una mostra alle Gallerie degli Uffizi, con Eike Schmidt e con la Fondazione Beni Culturali Ebraici, «Tutti i colori dell’Italia ebraica», sui tessuti delle collezioni dei musei ebraici italiani. Una pietra miliare nella storia delle arti decorative ebraiche. Ho portato avanti questo incarico cercando di costruire progetti con musei ebraici e non ebraici. L’ultimo progetto, che aprirà il 10 novembre, è una mostra sulla complessa vicenda dell’emancipazione degli ebrei di Roma durante gli anni del Risorgimento, per celebrare i 150 anni di Roma capitale, in un arco temporale che va dalla Repubblica Romana alla breccia di Porta Pia, dal 1849 al 1871. Curata da Francesco Leone e da Giorgia Calò, presenterà un gruppo di opere inedite e sorprendenti, in un ambito storico artistico ancora da approfondire. Il museo, con i suoi spazi espositivi nell’edificio della Sinagoga di Roma, predilige mostre soprattutto di opere d’arte, non solo di documenti d’archivio: proporre oggetti, sculture, dipinti, in un’ottica di studio e valorizzazione della sua importante collezione artistica, una delle più ricche nel mondo.

La pandemia è stata una battuta d’arresto pesantissima per gli antiquari: qual è lo stato di salute dei mercanti italiani alla fine del 2021?
Abbiamo commissionato uno studio sul mercato dell’arte, affinché vengano certificati da un ente terzo i numeri certi del nostro settore in Italia, con il suo importante indotto, prima e dopo la pandemia. In questi due anni abbiamo visto soffrire molto le gallerie antiquarie per la chiusura dei negozi con il lockdown e per l’assenza di turismo nazionale e internazionale nelle grandi città. Alcuni colleghi sono stati portati via dal Coronavirus, altri hanno dovuto chiudere attività già in difficoltà. Ci sono stati colpi molto duri a livello individuale. Questa scrematura, che avevamo già visto in passato, fa parte di un fenomeno più ampio, che non riguarda esclusivamente il mercato dell’arte ma tante attività economiche del Paese. Stiamo ancora facendo i conti con la riapertura, ma sono sicura che ci sarà una reazione molto forte da parte del nostro settore. Vedo già delinearsi una nuova fase che porterà a una crescita economica non appena riprenderà il calendario normale delle fiere. La Biennale di Palazzo Corsini, la più importante mostra internazionale per l’arte italiana, vedrà la prossima edizione nel settembre del 2022 e noi ci stiamo già preparando per presentare opere inedite importanti. Perché quello che conta alla fine sono proprio le opere d’arte. Nei mesi in cui abbiamo dovuto tenere chiuse le botteghe, ci siamo tutti ricollocati sul web con moltissima fatica, perché declinare la comunicazione di opere di scultura, pittura e di quel mondo ricco di sfaccettature che comprende le cosiddette arti decorative con mezzi digitali è una sfida quasi impossibile. Come si è detto più volte, il rapporto con l’opera d’arte in presenza è indispensabile, assolutamente ineludibile.

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