Un’opera di Borondo messa in vendita a sua insaputa

Staccata da un muro bolognese ed esposta a Torino: lo street artist spiega qual è stata la reazione a questa «violenza»

L’opera dello street artist Gonzalo Borondo staccata da un muro di Bologna
Alessio Vigni |  | Torino

Una settimana fa è stata ricoperta di vernice bianca con una bomboletta spray un’opera esposta nella mostra «Street Art in Blue 3» nel Teatro Colosseo di Torino. L’autore dell’opera, lo spagnolo Gonzalo Borondo che ha pubblicato su Instagram le foto dell’atto di cancellazione, spiega gli antefatti: un’altra storia di furto, decontestualizzazione e violazione della fruizione libera della Street art oltre che della libertà dell’artista.

Dove aveva realizzato la sua opera? Come è venuto a conoscenza della mostra e del fatto che ci fosse esposta una sua opera?
Tutto è iniziato quando un mio amico, anche lui artista, mi ha segnalato che sulla piattaforma Artsy erano in vendita due mie opere staccate tanto tempo fa a Bologna, un gesto grave che è stato raccontato molto bene nel libro «L’uomo che rubò Banksy». Sapevo che le due opere erano state in mostra a Milano e altrove, ma ignoravo fino a quel momento che fossero anche in vendita. La galleria che le aveva caricate su Artsy sembra non esistere ed è stato impossibile contattarla. Quindi ho denunciato sui miei social il fatto: mi ha risposto a quel punto una persona dicendomi che era appena stato ad una mostra a Torino dove aveva visto proprio quelle opere. Non avevo mai sentito parlare prima di «Street art in Blu3».

Quindi non è riuscito a scoprire chi ci fosse dietro la vendita delle sue opere?
Purtroppo sono riuscito a capire solo chi ci fosse dietro al furto delle opere dai muri, ma per la vendita ancora non so nulla. Mi piacerebbe molto scoprire l’identità di chi ha il coraggio di fare soldi alle spalle di noi artisti, rubando le opere dal luogo in cui le abbiamo realizzate che è parte della loro essenza.

«StreetArt in Blu 3» quali difetti aveva oltre a esporre le sue opere senza neppure avvisarla?
Tanti. La presentazione dei lavori era innanzitutto, secondo me, becera: le mie opere e quelle dei miei colleghi erano esposte in malo modo, senza curatela, senza coerenza. Insomma una mostra di qualità davvero bassa, un’accozzaglia priva di gusto. Il fatto poi di aver preso opere che erano state create in libertà, all’aperto, fruibili liberamente da tutti e averle messe in una mostra a pagamento, con un prezzo neanche basso, è inaccettabile. La mia unica richiesta quando espongo qualcosa in luoghi istituzionali, pubblici o privati, è proprio che l’ingresso sia gratuito. Un biglietto così alto per vedere delle opere rubate, poi...

Che cosa rappresentava il lavoro che è stata cancellato?
Quello che è stato cancellato, in realtà, non lo consideravo un’opera, era un esercizio che avevo fatto in una caserma abbandonata con l’intento di testare nuovi materiali plastici e nuove tecniche. Un esercizio attraverso il quale ho portato avanti alcune nuove mie sperimentazioni.

Era lei l’uomo nel video che ha distrutto la sua opera?
A questa domanda purtroppo non posso rispondere, posso solo dire che sono d’accordo con chi ha fatto questo gesto e condivido il suo intento.

Non pensa che questa azione possa aver aumentato in qualche modo il valore estetico e magari anche quello economico della sua opera? E soprattutto questa azione, che voleva essere un gesto di protesta e di dissenso alla violenza operata dagli organizzatori della mostra, non avrebbe potuto sortire un effetto contrario e trasformarsi in un gesto di richiamo mediatico per lesposizione?
Per fortuna questo gesto è stato fatto poco prima della chiusura della mostra, quindi non credo possa essere stato un elemento di richiamo mediatico per l’evento. È un’azione molto importante per denunciare ancora una volta la violenza di cui sono oggetto le opere di Street art. Aumentarne il suo valore estetico? Non penso, perché il lavoro è diventato una tela bianca con qualche leggera texture. Se questo avesse contribuito ad aumentare il livello economico sarebbe un fenomeno molto interessante, perché vorrebbe dire che qualcuno sarebbe disposto a comprare una tela bianca a un prezzo più alto di quello originale. Se dovesse accadere, mi farebbe sorridere, anzi scriverei a quel collezionista per dirgli quanto possa essere sciocco da parte sua comprare un lavoro in questo stato. Dall’altra parte evidenzierebbe l’assurdità del mercato dell’arte contemporanea in cui la speculazione sulle opere non ha a che fare con l’opera in sé. Credo che l’idea di chi ha compiuto questo gesto non sia stata quella di generare una nuova opera o di modificare quella esistente, ma di annullarla, farla sparire, annientarla. Penso che il mercato dell’arte e il mondo dell’arte siano due cose che devono convivere, ma che hanno due nature molto diverse. Nel mio caso, il mio lavoro si sviluppa nel dialogo con gli spazi, mi interessa trasformare i luoghi, riattivarli in modo da modificare il paesaggio quotidiano che ogni giorno vediamo nelle nostre città. Per me è fondamentale il dialogo tra l’opera e il luogo in cui viene realizzata. Quando accade che il mio lavoro venga strappato e portato via dallo spazio di origine, perde la sua identità. Per esempio, l’opera che è stata coperta, se vista nell’ambiente in cui l’avevo realizzata si prestava a maggiori interpretazioni ed era bello poter vedere come si integrava con quel contesto. Ora che è stata rubata, è giusto che non esista più.

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