Il corpo del reato a Palazzo Reale

«Il povero, l’emarginato, il migrante, oggi non ha diritto a un corpo. Diventa una categoria. E di lui restano solo le spoglie»: Francesca Alfano Miglietti, teorica della Body art, indaga tra «le rovine dell’anima» nel post epidemia

«Next Summer» (2013) di Carol Feuerman. Cortesia delle Bel-Air Fine Art Contemporary Art Galleries. Foto Thomas Degalet
Ada Masoero |  | Milano

Carne e sangue, questo sono, da sempre, le mostre di Francesca Alfano Miglietti, in arte FAM. E l’ultima, appena inaugurata in Palazzo Reale a Milano, dove sarà visibile fino al 30 gennaio prossimo, non fa eccezione. «Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima», prodotta da Palazzo Reale e Milano Cultura con Marsilio Arte e Tenderstories, scandaglia il concetto di «umanità» dopo il trauma collettivo del Covid-19, attraverso 112 opere, dei più diversi media, di 34 famosi artisti internazionali, da Yael Bartana a Christian Boltanski, da Gino de Dominicis a Urs Lüthi, da Carol Rama (sua l’opera più «antica», del 1937) a Michal Rovner.

Ideata con Lea Vergine, cui è idealmente dedicata, in una sezione dedicata alla studiosa, scomparsa di recente e che per prima ha esplorato le tematiche del corpo nell’arte, ma poi interrotta per l’irrompere della pandemia, la mostra ha inevitabilmente acquisito una lettura poetica diversa dopo la cesura epocale del Covid-19, che non solo ha cambiato il nostro mondo ma ha anche accentuato ulteriormente le diseguaglianze.

Come spiega FAM, «La mostra sin dall’inizio è stata costruita sul passaggio teorico dalla Body art all’Iperrealismo americano (ora molto diffuso anche nell’Est del mondo), con lo spostamento dal corpo vero al corpo finto. In mostra ci sono corpi che sembrano veri ma sono finti, mentre il corpo vero è sparito: il povero, l’emarginato, il migrante, oggi non ha diritto a un corpo. Diventa una categoria. E di lui restano solo le spoglie».

Così si spiegano i vestiti di Boltanski, le scarpe di Chiharu Shiota, le valigie di Fabio Mauri. Perché in una civiltà dello spettacolo, qual è quella in cui stiamo (ancora per quanto?) vivendo, i corpi «devono» essere perfetti, mentre quelli degli emarginati non lo sono quasi mai: «perciò spariscono dalla comunicazione, sostituiti proprio dalle loro spoglie».

Una mostra dura, questa, che ci richiama alle nostre responsabilità ma che, tuttavia, «non urla ma parla: vuole essere un appello, una riflessione su ciò che siamo diventati e ciò che possiamo fare per il futuro, rincara FAM. Perché l’arte ha un ruolo di coscienza morale ed etica della società, non certo di alleggerimento né di “abbellimento”».

Non a caso il catalogo (Marsilio) è multidisciplinare, con interventi di personalità diversissime, come Vincenzo Argentieri, Franco Berardi «Bifo», Francesca Giacomelli, Chiara Spangaro, Moreno Zani. E poi del cardinale Ravasi, che scrive sul concetto di «Corpus Domini», del filosofo Massimo Recalcati, qui con un testo politico sugli «esclusi» e sui loro disagi, di Gino Strada, anche lui scomparso da poco, che racconta il corpo ferito, dilaniato dalle guerre, con cui si è confrontato per tutta la vita negli ospedali di Emergency, e di Furio Colombo che «come quasi tutti del resto, parla dei migranti. Perché non si possa più dire “non lo sapevamo”, chiosa la curatrice. Lo sapevamo invece, e l’arte deve rammentarci il nostro ruolo nelle vicende della storia».

© Riproduzione riservata La performance «Slumber» (1993) di Janine Antoni. Foto Ellen Labenski al Guggenheim Museum Soho, New York, NY 1996. © Janine Antoni. Cortesia dell’artista e Luhring Augustine, New York «Where’s North, Where’s South? (Children and Testimony)» (1988) di Vlassis Caniaris. Cortesia Kalfayan Galleries «Seated Guard #2» (2015) di Marc Sijan. «Out of…» (2018) di Zharko Basheski. Cortesia dell’artista. Foto Stanko Nedelkovski
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