La Milano del futuro di Citterio

Secondo l'architetto due volte compasso d'oro, un approccio cosciente di buona edilizia vale molto di più di progetti spropositati ed egocentrici

Antonio Citterio © Stefano Ferrante
Michela Moro |

Data l’importanza dei progetti architettonici a Milano e dintorni, terminati e in fase realizzazione, si potrebbe dire che Antonio Citterio (1950) ha messo (in senso buono) le mani sulla città. Eppure la definizione di archistar proprio non gli si addice: è defilato, metodico e riflessivo, non ama le mondanità e va a dormire presto. Settantun anni e pochi capelli bianchi, è designer da più di cinquanta. Per lui non si è trattato di vocazione: era quello che sapeva fare benissimo già da adolescente, seguendo il padre brianzolo, disegnatore e artigiano. Nel 1987 e 1994 ha vinto due Compasso d’Oro. Il design è un discorso personale, l’architettura il punto di forza dello Studio ACPV Antonio Citterio Patricia Viel. Attivo dal 2000 con più di cento persone, lo Studio ACPV ha firmato le Torri residenziali a Taiwan (nuove tipologie abitative sviluppate con ampi spazi di co-living); i 50mila metri quadrati del New Doha International Airport in Qatar; i Bulgari Hotels in tutto il mondo; lo sviluppo urbano della città di Hasselt in Belgio; Arte, condominio scultoreo sulla spiaggia a Miami Beach; i superyacht di San Lorenzo e di Gruppo Ferretti e molto altro.

Antonio Citterio, il suo studio opera in tutto il mondo. Perché ha aspettato tanto prima di progettare per Milano?
Succede. Spesso nessuno è profeta in patria. Negli anni abbiamo fatto molte competizioni, a un certo punto abbiamo iniziato a vincerle. A metà anni Ottanta avevamo progettato Esprit Milano, poi il quartier generale di Zegna, erano incarichi privati. Abbiamo vinto la gara di A2A in piazza Trento (con il nuovo grattacielo alto 144 metri e la riprogettazione di tutta via Crema) e il grosso incarico del distretto di Symbiosis (sviluppo del masterplan su larga scala del quartiere degli affari Symbiosis per Covivio) che include, tra l’altro, «Nexxt» (la nuova sede di Fastweb già completata accanto alla Fondazione Prada) e altri edifici. Era anche una questione di maturità professionale, lo studio ha preso una forma e un’altra dimensione negli anni 2000, quando la società si è trasformata da Antonio Citterio ad ACPV Antonio Citterio Patricia Viel.

Oggi non sono molti gli architetti milanesi che hanno la fortuna di intervenire sul tessuto della propria città. È un valore aggiunto?
È molto più interessante lavorare nella propria città, perché si ha la conoscenza del territorio ed è un’architettura più cosciente. C’è il piacere di stare in cantiere e l’opportunità di visitare la costruzione mentre la stai facendo, cosa che non succede lavorando all’estero, specie con il Covid i viaggi si sono dilatati. Ora stiamo costruendo gli edifici di Symbiosis: 125mila metri quadrati di progetti per la riqualificazione del quartiere Porta Romana-Vettabbia, con un approccio innovativo ad alcune delle principali sfide ambientali, come abbattere le emissioni di CO2, migliorare la qualità dell’aria e rendere le città più vivibili.

Ci sono differenze di approccio tra i progetti «Gate Central», edificio mixed-use a Milano, di fronte alle Colonne di San Lorenzo in corso di Porta Ticinese (punto nevralgico della movida), la ristrutturazione della Galleria San Carlo e della Galleria Passerella 2 in piazza San Babila e il masterplan per Cascina Merlata alle porte di Milano?
Certo. Basti pensare all’altezza che deve avere un edificio, agli allineamenti con la strada, alla distanza con gli edifici. L’intervento di Porta Ticinese è una specie di cesello: un edificio abbattuto durante un bombardamento dell’ultima guerra, dopo più di settant’anni vede la possibilità di ricucire il volume preesistente. Abbiamo avuto un approccio quasi filologico sulla strada, cercando di riconnettere il tessuto di Porta Ticinese: è un’architettura in punta di piedi, come se fosse sempre stata lì. Non cerchiamo di lasciare il segno a tutti i costi. Nell’architettura c’è un approccio «egocentrico», dove l’architetto vuole riconoscersi come tale, e c’è un approccio di buona edilizia, che potrebbe essere molto di più che fare buona architettura. È un vecchio dibattito tra architetti. Dover per forza lasciare il segno è un atteggiamento che ha fatto il suo tempo. Noi abbiamo grandi opere architettoniche, da Caccia Dominioni a Gardella, molti sono intervenuti e hanno ricucito parti della città con oggetti che reggono il tempo senza essere cose spropositate. Questo è il nostro modo di lavorare in città. Anche il mio studio in via Cerva pare essere sempre stato lì, è un atteggiamento. La nostra città è fatta di buona edilizia, a Milano tutto l’800 e il ’900 sono così. Il discorso di Cascina Merlata è diverso, lì abbiamo fatto il progetto di masterplan dell’area e abbiamo dato delle linee guida (come dovevano essere fatti la strada e il marciapiede, l’attacco degli edifici a terra, il ponte, tutto quel nuovo tracciato diventato la porta dell’Expo). Quando costruisci una nuova parte della città il problema espressivo dell’edificio può essere diverso. Ricucire con degli edifici che hanno una loro personalità, perché stai ricucendo la periferia alla città, è un altro approccio. L’edificio diventa un marker territoriale, la città per svilupparsi ha bisogno di elementi fortemente riconoscibili, che creano un luogo, come il progetto di A2A che prevede la riprogettazione di tutta via Crema. Sono grandi cambiamenti che risolvono problemi di aree della città fino a ieri periferiche e adesso collegate a una zona centrale. Nel 2026, quando ci saranno le Olimpiadi, quest’asse cambierà la percezione. Per il progetto di A2A usare tutta la superficie e mettere 20mila metri quadrati in un edificio di sette piani avrebbe chiuso la possibilità di proseguire con via Crema scavallando la ferrovia per poi arrivare fino a Prada; per lasciare aperta questa possibilità abbiamo preferito fare una torre dove l’attacco a terra fosse il minimo possibile, da anni si parlava dello smantellamento dell’anello ferroviario. Siamo stati gli unici a proporre quest’idea che si è poi materializzata; il Comune ci ha incaricato di intervenire anche su via Crema, non è più solo il progetto della torre di A2A, per il 2026 diventerà questo il nuovo asse.

A Milano lei ha anche progettato alberghi di lusso, come Bulgari e Mandarin. Come si racconta lo stile milanese ai turisti?
Sono due luoghi straordinari. Il Bulgari era un grande piazzale con un parcheggio davanti a una chiesa; improvvisamente è diventato un luogo speciale. È bastato portare il piano terra al primo piano, tutte le macchine sono scomparse, si è creato un nuovo punto di vista piantando nuovi alberi e facendo un grande lavoro di ricucitura con l’Orto Botanico: sei in centro, ma hai la sensazione di essere in un parco.

Milano è cambiata radicalmente. Qual è stato il punto di svolta?
L’enorme cambiamento di Milano è molto legato alla moda e al design. Improvvisamente ha iniziato ad avere esigenze di alberghi. Negli anni Sessanta avevamo alberghi molto importanti successivamente chiusi, come se non avessero più senso. Poi con il mercato della moda e delle fiere abbiamo cominciato ad averne di nuovo bisogno, non sono passati tanti anni da quando è stato fatto il FourSeasons. Era un convento del XV secolo, ci sono andato con un investitore nel 1981-82, me lo ha fatto vedere chiedendomi che cosa ci si sarebbe potuto fare. Negli anni Ottanta non avevamo alberghi, poi Milano è rinata sull’ospitalità, su questi luoghi di grande qualità in centro e improvvisamente è diventata una città turistica. Durante l’Expo ha avuto più turisti di Roma. Inizia a essere molto appetibile internazionalmente, con stranieri che voglio vivere qui, per la posizione strategica a due ore dal mare e dalla montagna. Questa rinascenza è iniziata una decina di anni fa, ma non abbiamo certo chiuso con la qualità urbana degli edifici. Milano diventerà sempre più interessante.

A Milano c’è anche molta architettura internazionale, pensiamo alla Bocconi. Come si mantiene il carattere di un luogo, senza diventare una specie di catalogo dell’architettura mondiale?
Dipende dalla qualità degli architetti e dai committenti. Ormai l’architettura, al di là della sua responsabilità rispetto alla città, è un fatto di business. Gli investitori vedono che cosa ha funzionato e che cosa no. C’è una sorta di logica legata al mercato.

Il cambiamento di Milano si riflette sulla Lombardia?
La provincia non ha avuto lo sviluppo di Milano. La Lombardia sta soffrendo in determinate zone, dove molte produzioni sono venute a mancare, gli ultimi dieci anni sono stati di grande deindustrializzazione. Non si può parlare di rinascenza della Lombardia con la chiusura di molte industrie.

In un momento in cui tutti parlano di architettura a Milano, il design ha la stessa importanza di un tempo?
Il design è qualità della vita, da sempre traina l’economia e il made in Italy. È trainante anche dal punto di vista del lifestyle, come la moda. Non è importante solo l’oggetto, ma ciò che l’oggetto rappresenta. Quest’anno avremo il Supersalone. Ci aspettiamo di riportare le persone a Milano anche con questa forma ridotta del Salone. In questo momento nell’ambito dell’arredamento c’è un boom, è come se le persone per un anno chiuse in casa avessero improvvisamente capito le deficienze dei propri prodotti. Abbiamo un aumento di circa il 30-40% in tutte le aziende, con il problema della mancanza di materiali. C’è un boom sulla richiesta di prodotti per la casa: divani, librerie, cucine.

Milano è ancora il centro del design?
Certo. Non tanto per i professionisti, ma perché ci sono i negozi, i grandi brand, il Salone del Mobile, le riviste e la comunicazione. Gli studi possono anche non essere più milanesi, ma la comunicazione del furniture design è milanese. Fino a quando ci sarà questo, il centro del design rimarrà Milano. Quando la comunicazione e le fiere saranno a Shanghai, il centro del design si sposterà. È un sistema che funziona attraverso questa catena del valore. Il design è parte integrante del processo industriale, non è un valore aggiunto, parte dal processo. C’è il design dove c’è l’industria. In Italia abbiamo perso l’industria dell’elettronica e non abbiamo più designer dell’elettronica.

Che importanza ha nel suo lavoro il design?
Presenterò un film sui miei cinquant’anni di lavoro al Design Film Festival. Poi uscirà un libro sull’architettura e nel 2022 un libro sul design. Quando lavori per cinquanta anni è il momento di tirare le somme, avevo bisogno di creare una sorta di catalogo ragionato. Anche perché, se non lo faccio io chi lo fa?

Qual è il suo pezzo più venduto?
Ci sono elementi come il divano Charles della B&B, i carrelli della Kartell, ma anche la lampada della Flos o le sedie Visavis di Vitra, che hanno venduto almeno 1,3 milioni di pezzi.Un prodotto diventa un’icona quando rimane sul mercato per decine di anni: Charles è stato fatto ventidue anni fa ed è ancora il best seller dell’azienda, lì capisci.

Funzionerà il Salone di Boeri?
Dobbiamo tutti sperare che funzioni.

È stato socio del gallerista Massimo De Carlo ai suoi inizi. Come vede l’arte contemporanea oggi?
Per me l’arte è un hobby, un grande piacere. Non spendo per la mia vita privata. L’unica cosa che m’interessa è questo mondo, che è sempre stimolante.

A Milano c’è bisogno di un museo di arte contemporanea?
Il museo è un concetto ottocentesco. Se si pensa al luogo dell’arte come a un luogo ripetitivo dove stanno sempre le stesse cose appese, non ha più senso. Se avessimo degli spazi come quello dell’Hangar, ma più centrali sarebbe un’altra cosa. L’arte non è finita, non si può dire non facciamo più un museo perché l’arte è finita. Abbiamo bisogno di luoghi dell’arte, chiaramente il concetto del museo è un’altra cosa. Guardando la Luma Foundation, progettata da Frank Gehry e appena inaugurata ad Arles, ho avuto la sensazione che rappresenti un tempo passato. Abbiamo bisogno di luoghi che concettualmente e culturalmente abbiano una sorta di flessibilità, non una cosa cristallizzata, com’è il MaXXI di Roma. I musei non devono essere i musei di se stessi, non ne abbiamo bisogno.

Come vede il futuro della città?
I grandi cambiamenti avverranno quando saranno dismessi tutti gli anelli della città, quegli che chiudono il cerchio della ferrovia. Ci sarà una crescita a sud, alla Bovisa, a Porta Genova. Pensi come si espande la città nel momento in cui gli togli l’anello ferroviario che decreta il centro e la suburbia. Stiamo lavorando anche a MilanoSesto. Il masterplan è di Foster, la stazione del passante di Piano, nostri gli edifici degli uffici direzionali accanto alla stazione, Cucinella progetta l’ospedale. Si stanno creando dei poli di ricerca, come quello sanitario, sarà uno dei grandi sviluppi di Milano. I centri ospedalieri sono anche collettori di turismo. Milano sarà anche questo: moda, design e grandi centri di ricerca.

© Riproduzione riservata Il Symbiosis Business District Masterplan di Milano © Acpv Antonio Citterio Patrizia Viel
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