Alla presidenza della Fondazione Fitzcarraldo arriva Alessandra Gariboldi

Donna ma soprattutto giovane: «una scelta finalmente mainstream anche in Italia», dice. Obiettivo? La sostenibilità integrata

Alessandra Gariboldi
Alessandro Martini |

La storica dell’arte Alessandra Gariboldi, 47 anni, è la nuova presidente della Fondazione Fitzcarraldo che, da Torino e da più di 20 anni, opera su vari fronti nazionali e internazionali per promuovere la sostenibilità e l’innovazione delle politiche, delle pratiche e dei processi culturali e creativi. Succede a Ugo Bacchella, cofondatore e al timone della Fondazione sin dalla sua nascita nel 1999. Catterina Seia è vicepresidente. Alessandra Gariboldi ha maturato le sue ventennali competenze sia come collaboratrice della Fondazione Fitzcarraldo (per cui è stata coordinatrice dell’Area Ricerca e Consulenza e, dal 2019, come responsabile dell'Area Progetti Transnazionali) sia come consulente per alcuni grandi progetti e istituzioni nazionali e internazionali, tra cui diverse Capitali Europee della Cultura.

Dottoressa Gariboldi, lei alla presidenza e Catterina Seia suo vice: un vertice al femminile per la Fitzaccaldo. È un dato per lei importante e significativo?
La leadership femminile è finalmente mainstream, su questo non ci sono dubbi. Sono felice di fare parte di questo cambiamento e di contribuire nella mia posizione a dare spazio alle prossime generazioni di donne che vorranno assumere ruoli apicali, ma riconosco anche che nel caso della nostra fondazione la novità è soprattutto generazionale, essendo io il più giovane membro del cda. Il che la dice lunga sul concetto di «giovane» in Italia, dal momento che ho 47 anni. Il problema è comunque reale, anche se oggi sempre più donne stanno assumendo ruoli di responsabilità e sappiamo che nel mondo culturale, nonostante rappresentino la maggioranza della forza lavoro, sono poche soprattutto nelle istituzioni di maggior prestigio, mentre il bilanciamento è più equilibrato nelle realtà piccole e indipendenti.

Da più di 20 anni la Fondazione Fitzcarraldo opera per promuovere la sostenibilità e l'innovazione delle politiche, delle pratiche e dei processi culturali e creativi. Come è cambiato il panorama in questi vent’anni e quali risultati sono stati raggiunti?
Moltissimi sono stati i cambiamenti che abbiamo osservato nel settore culturale e creativo. Quando 25 anni fa creammo il primo corso di formazione per progettisti culturali, parlare di management culturale sembrava una blasfemia. Oggi tutte le maggiori università hanno corsi in management della cultura. Nello stesso periodo abbiamo promosso un protocollo di intesa inedito che metteva insieme Ires, Fitzcarraldo e i principali enti pubblici e fondazioni di origine bancaria del Piemonte per creare un Osservatorio Culturale in grado di restituire dati affidabili, serie storiche e approfondimenti sulla produzione e la pratica culturale in regione. Oggi nessuno direbbe più che le politiche culturali non hanno bisogno di dati di realtà per assumere decisioni che riguardano migliaia di operatori e, indirettamente, l’accesso alla cultura per milioni di cittadini.  Lo stesso si può dire della rigenerazione urbana a base culturale fondata su partenariati pubblico-privati sempre più ampi ed efficienti, così come gli studi sul pubblico della cultura e le politiche e le pratiche per promuovere la partecipazione culturale delle persone, un tema per noi importantissimo, che seguiamo da vicino dalla fine degli anni ’90 e che oggi è pienamente riconosciuto come un tema centrale per qualunque organizzazione culturale. Attraverso ArtLab, evento che organizziamo annualmente in collaborazione con oltre 40 partner nazionali e internazionali, abbiamo negli anni contribuito a sollevare i grandi temi che oggi guadagnano una nuova rilevanza e sono finalmente riconosciuti come le grandi questioni per il futuro della cultura nel nostro Paese: la dignità del lavoro culturale, le imprese culturali e creative nelle loro specificità e bisogni, i partenariati speciali pubblico-privati per la rigenerazione del patrimonio in abbandono, l’innovazione delle pratiche di mediazione e coinvolgimento dei pubblici, la collaborazione possibile e necessaria tra mondo della cultura e mondi del sociale, dell’educazione, della salute, del turismo e dell’impresa.

C’è però ancora molto su cui intervenire. Dove, in particolare?
Il settore culturale è fragile, frammentato e in buona parte funestato da diseguaglianze importanti in termini di accesso ai finanziamenti e di capacità di innovazione. La cultura è ancora il fanalino di coda delle politiche pubbliche, cronicamente sottofinanziata, sempre portata in palmo di mano quando se ne parla ai media ma ignorata o fraintesa (strumento per il turismo, strumento per il prestigio, strumento per l’economia…) se si guardano le entità e le modalità dei finanziamenti. Oggi però ci sono nuove generazioni soprattutto di operatori culturali con le spalle larghe, un incredibile bagaglio di competenze e qualche strumento in più per creare valore riconoscibile per le proprie comunità di riferimento e negoziare la propria posizione con le amministrazioni locali. E ci sono spazi di crescita e sviluppo su diversi fronti, anche grazie al digitale che ad esempio per i musei e il patrimonio non è più una vaga minaccia ma, grazie anche all’accelerazione della pandemia, è ormai parte integrante del nostro modo di stare al mondo, con il quale tra luci e ombre abbiamo alla fine capito che è necessario fare i conti. E anche chi non aveva del tutto compreso e accettato gli approcci partecipativi ha maturato la consapevolezza che l’assenza di pubblico è inaccettabile, che abdicare alla funzione sociale della cultura non è solo tradirne il senso nella contemporaneità, ma condannarsi all’irrilevanza.

Quale sarà il suo contributo?
Continuerò a seguire i progetti transnazionali, che sono per noi un’area strategica per la ricerca e l’apprendimento continuo che, al di fuori di una dimensione almeno europea, è difficile immaginare, così come di partecipazione culturale, ma con una prospettiva che in un certo senso è nuova anche per noi, che è quella della sostenibilità integrata. Ci siamo sempre occupati di sostenibilità economica e di sostenibilità sociale, ma non disponevamo di un quadro di riferimento che ci aiutasse a considerare il principio della sostenibilità come «mindset» integrato, includendo ad esempio la dimensione ambientale. La buona notizia è che non sarò certo sola nel farlo, dal momento che una delle prime trasformazioni che stiamo mettendo in atto è quella di una revisione della governance in chiave più distribuita, che metta in valore i tanti talenti di colleghi e colleghe e ci permetta di rimanere aperti e in ascolto. Una caratteristica oggi molto più difficile perché siamo una struttura ben più grande e geograficamente distribuita rispetto a quando abbiamo iniziato.

Quale è stato il suo impegno in questi anni con Fitzcarraldo?
Mi sono sempre occupata di partecipazione culturale, dalla ricerca alla progettazione alla valutazione di progetti e politiche. Negli ultimi anni ho lavorato soprattutto nella cooperazione europea e per molto tempo mi sono anche occupata di imprese culturali, un’esperienza straordinaria perché mi ha permesso di essere sempre a contatto con ciò che accadeva sui territori in Italia e all’estero, progetti culturali che hanno spesso cambiato il mio modo di vedere le cose. Ho avuto la fortuna di lavorare con professionisti straordinari, dentro e fuori da Fitzcarraldo, dai quali non smetto di imparare ogni giorno.

«Dimensione collaborativa» e «prospettiva europea» sono alcuni dei perni della vostra azione. In quale modo?
La complessità del mondo di oggi è elevatissima e non può essere ridotta, ma gestita. Per farlo c’è bisogno di competenze diverse, sguardi altri che nessuno da solo può portare. Siamo una fondazione relativamente piccola, indipendenti da sempre per scelta, operiamo nell’interesse generale che significa concentrarsi su grandi sfide sociali che nessuno può pensare di affrontare da solo. Il mondo della cultura è terribilmente parcellizzato e necessita di ponti al suo interno. Ma non basta. Per noi è centrale la prospettiva culturale, quella del patrimonio e della produzione contemporanea, ma è chiaro che la cultura da sola non può risolvere i problemi del Paese. Senza il mondo dell’educazione, del sociale, della sanità, delle imprese, abbiamo le armi spuntate. Per questo è necessario collaborare a tutti i livelli: 15 anni fa abbiamo organizzato il primo ArtLab praticamente da soli. Oggi 40 partner si trovano più volte l’anno per proporre e decidere insieme quali temi, quali prospettive, quali urgenze si debbano affrontare negli incontri.

Avete qualche suggerimento per il Governo e i ministri interessati, nella direzione della ripartenza dell’arte e del turismo in Italia?
Siamo all'inizio di una stagione europea straordinaria: il rinnovato spirito solidale e di coesione di fronte all’emergenza ha permesso di mettere in campo misure di sostegno e crescita senza precedenti per i Paesi dell’Unione Europea, in special modo per l’Italia, di cui il Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è uno dei perni. All’interno di questa cornice sovranazionale abbiamo ora bisogno nel nostro Paese di una visione forte e coraggiosa. La prima urgenza è il riconoscimento del lavoro culturale, che non è «solo» quello dello spettacolo ma anche delle migliaia di persone che ogni giorno mediano il nostro patrimonio, ne garantiscono l’accesso al pubblico e lo rendono parte attiva della vita sociale e dell’economia dei territori. Una porzione di lavoratori ancora più invisibile tra gli «invisibili», non solo perché sono spesso lavoratori atipici, ma anche perché non dipendono dall’amministrazione pubblica, sono privati, associazioni, cooperative, imprese che rappresentano l’apparato muscolare e sanguigno del patrimonio e della creatività, laddove i beni immobili e materiali ne rappresentano l’ossatura. La seconda urgenza è dunque che la pubblica amministrazione prenda atto che «il privato» non è un nemico da cui guardarsi, ma un alleato imprescindibile per affrontare i problemi che in questo Paese si chiamano povertà educativa, abbandono scolastico, incremento delle disuguaglianze, dissesto ambientale, disoccupazione, paralisi produttiva. La terza è un’integrazione forte ed esplicita delle politiche culturali con le politiche concorrenti, una su tutte quella di coesione, per superare le crescenti disparità tra Nord e Sud, tra aree metropolitane e aree interne. Il Pnrr è già in qualche modo integrato con le priorità degli obiettivi di sviluppo sostenibile, ma questa integrazione deve essere incentivata nei piani attuativi, affinché gli interventi sui territori siano davvero volani di uno sviluppo integrato, che dia voce ai cittadini e al tessuto culturale e produttivo dei luoghi e non affronti lo sviluppo territoriale come un progetto definito in ogni dettaglio, ma come un processo di «capacitazione» dei territori affinché possano esprimere il proprio potenziale.

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