Troppe opere: il mercato è inquinato

Una ricetta per la ripartenza: la decrescita e il recupero di ciò che vale, non di ciò che è nuovo

Massimo Minini. Foto Giovanni Gastel, 2019
Ada Masoero |

Mirad’Or è uno scrigno trasparente, un acquario su palafitte sospeso sull’acqua del Lago d’Iseo, con cui quasi si fonde, concepito per il Comune di Pisogne da Mauro Piantelli (De8_Architetti) come spazio espositivo per l’arte contemporanea. Qui fino al 30 settembre è allestita una mostra di Daniel Buren (1938), da godere, in questo caso, solo dall’esterno.

È l’esordio del progetto espositivo affidato da Pisogne a BELLEARTI Brescia, «un gruppo di guastatori» presieduto da Massimo Minini, come lo definisce il gallerista stesso, composto da collezionisti, artisti, galleristi, curatori e appassionati, tra i quali Edoardo Monti, Afra Canali, Stefano Crisara, Dario Bonetta, Fabio Bix, Andrea Boghi, Sara Raza, Pierre-Alain Croset e Ada Biceri.

Agli stessi «anarchici» si deve il progetto «La Plage» (500 ombrelloni di spiaggia) di Pascale Marthine Tayou che dal 21 giugno fino all’autunno occuperà il vigneto urbano più grande d’Europa, nel Castello di Brescia. In mostra a Pisogne, due grandi dittici in fibra luminosa, visibili giorno e notte, quando diventano, essi stessi, fonte di luce.

Ma com’è nata l’avventura?
«Un paio d’anni fa, ci spiega Massimo Minini, vennero da me dei signori di Pisogne, il paese dove sono nato. Tra vincoli, richieste di permessi e polemiche, sono stati necessari due anni. Poi, improvvisamente, pochi mesi fa mi comunicano che tutto era pronto e che bisognava preparare una mostra. Ho pensato all’installazione di Buren nel Palazzo della Ragione a Bergamo («Illuminare lo spazio», 9 luglio-1 novembre 2020, Ndr), che si era appena chiusa, chiedendo all’artista il permesso di esporre quattro suoi lavori. Permesso accordato. È la prima mostra di Buren al cui allestimento l’autore non ha presenziato. Ma ne è stato molto soddisfatto. Il tutto, con un costo ridicolo di 11mila euro. Non così, purtroppo, accade altrove sul Lago».

A che cosa sta pensando?
Alla gigantesca opera di Lorenzo Quinn (braccia e mani colossali che sorreggono un mappamondo) che si pensa di collocare dove c’era il lavoro di Christo. C’è un comitato che spinge per realizzare quest’opera del costo, tra l’altro, di 3-4 milioni di euro. E che dovrebbe restare a lungo, al contrario di «Floating Piers» (Christo sapeva bene che la «sparizione» alimenta il mito). Far seguito a Christo con Quinn significa non averne capito il lavoro: due mondi e due modi inconciliabili per la differenza di qualità.

Come pensa che debba muoversi il sistema dell’arte per ripartire?
Dal XX secolo, quando gli artisti hanno recuperato il loro primato sui committenti, il mercato è stato l’elemento trainante dell’arte. Ma questa crescita non può continuare in modo esponenziale senza rischiare di «avvitarsi». Il nostro mondo è inquinato da una quantità enorme di merci e afflitto da gigantismo. Ho chiesto ad Art Basel di eliminare la sezione «Unlimited» e di sostituirla con «Limited»: non più opere ingombranti ma piccoli capolavori. Dovremmo domandarci «che c’è di valido?» invece di «che c’è di nuovo?». Ho deciso quindi di recuperare artisti che hanno avuto grandi riscontri nel recente passato e poi sono entrati in ombra: penso a Ghirri, Arakawa, Calderara, Golub, Titina Maselli ecc. Perché Calderara costa 5mila euro e Agnes Martin 200mila?

Quanto ha inciso il venir meno delle fiere?
Partecipare alle fiere comporta dei costi di 700-800mila euro l’anno. L’anno scorso non solo non li abbiamo spesi ma, per quanto ci riguarda, abbiamo anche guadagnato di più. Occorrerà ripensare anche questo aspetto.

Quali strategie suggerisce?
Bisognerebbe puntare sulla qualità. Il mondo è strapieno di merci e di opere. Collezioni da mille lavori che i proprietari non sanno più dove mettere e che i musei ormai rifiutano, per mancanza di spazio. Bisogna puntare sulla decrescita.

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