Il mammut nel castello

Dopo il restauro, il nuovo allestimento al MuNDA per il testimone dell'era del Pleistocene

Mammuthus meridionalis. Foto di Mauro Vitale per il Segretariato Regionale dell’Abruzzo
Stefano Miliani |  | L'Aquila

L’Aquila ha una star imponente e antichissima, confinata nel salone dove alloggia dal 1960, nella casamatta del bastione est del Castello spagnolo. È il mammut di Madonna della Strada, nome scientifico Mammuthus meridionalis. Tutti al suo cospetto si incantavano, fino al terremoto del 2009: da allora questo testimone dell’era del Pleistocene non è più comparso in pubblico.

Restaurato nel 2015 con 600mila euro stanziati dalla Guardia di Finanza e un approccio multidisciplinare che ha impiegato tecniche applicate all’arte e altre proprie della paleontologia, lo scheletro appartenente al MuNDA. Museo Nazionale d’Abruzzo è segregato poiché l’enorme castello è inagibile e in restauro. Il fossile «fu rinvenuto nel 1954 in una cava di argilla in una località presso Scoppito, nella conca aquilana che un tempo era un bacino lacustre, e risale a 1,3 milioni di anni fa», ricorda Maria Adelaide Rossi, direttrice del restauro e dell’allestimento del reperto per conto del Segretariato Regionale per l’Abruzzo, paleontologa, già in forze nella Soprintendenza per Chieti e Pescara, oggi in pensione e sempre attiva, mentre il Rup (responsabile unico del procedimento) è l’archeologa del Segretariato, Maria Rita Copersino.

Le ricerche condotte con il restauro hanno permesso di conoscere a fondo la storia dell’animale. «Lo studio delle ossa permette di stimare che in vita il mammut aveva un’altezza alla spalla di quattro metri e una massa corporea di oltre undici tonnellate, quasi il doppio dell’elefante asiatico attuale. Morì di vecchiaia a 55 anni circa, lo sappiamo dallo stato di usura dei denti, dice ancora la paleontologa. Lo contraddistingue la mancanza della zanna sinistra, persa in uno scontro. Grazie a uno stato di conservazione eccezionale l’esemplare è un riferimento per gli specialisti di tutto il mondo, tuttavia oltre al valore scientifico ha un forte legame con la popolazione e prima del sisma rappresentava la maggiore attrazione del museo. I bambini, le scolaresche, ogni aquilano ne ha un legame affettivo e un ricordo».

Adesso si intravede la fine della clausura. «Il completamento del progetto che ha interessato il Mammuthus meridionalis prevede l’allestimento che sarà realizzato dopo il completamento dell’impermeabilizzazione e del risanamento della sala. Prevediamo due diverse fasi di allestimento», fa sapere per iscritto Maria Adelaide Rossi: nella prima, più «snella», il Segretariato completerà il progetto finanziato dalla Guardia di Finanza; la seconda, più ambiziosa e complessa, la curerà il MuNDA e richiederà un finanziamento specifico.

«In questo secondo allestimento si vuole dare spazio anche ad altri due siti paleontologici che hanno restituito ancora importanti resti di mammut meridionale a Campo di Pile e di altri grandi mammiferi a Pagliare di Sassa, prosegue la paleontologa. I tanti studi e ricerche condotti in questi anni con specialisti paleontologi, geologi, paleobotanici e fisici nel territorio dell’Aquila ci hanno permesso di ampliare le conoscenze di questi luoghi, quando nel Pleistocene inferiore e all’inizio del Pleistocene medio (1.300mila e 700mila anni fa), elefanti, rinoceronti, ippopotami e grandi cervi dominavano quel paleoambiente. Con la paleontologia possiamo ricostruire il passato più lontano del territorio», conclude Maria Adelaide Rossi, ricordandoci implicitamente quanto conoscenza scientifica e umanistica siano indispensabili anche per la vita di tutti noi.

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