Il maestro segreto di Bob Dylan

Un estratto dal ritratto che Alessandro Carrera ha composto sulla vita e l’opera dell’artista

Bob Dylan. Foto di Andrea Orlandi
Alessandro Carrera |

Da Chronicles Volume 1 sappiamo che Dylan, nonostante le critiche futuriste all’istituzione museale ripetute in varie interviste degli anni sessanta e poetizzate in Visions of Johanna, frequentava volentieri il Museum of Modern Art di New York ed era particolarmente attratto dalle composizioni urbane, collagistiche, caotiche ma anche serene di Red Grooms, un pittore pop stimato anche dai poeti beat. Red Grooms lo interessava molto più di Andy Warhol. A parte la poca affinità dei caratteri (Dylan ha anche posato per uno degli screen test di Warhol, ma non sono mai diventati amici), Dylan non era stato un buon giudice del valore commerciale di Warhol, al punto da regalare al suo manager Albert Grossman, in cambio di un divano, uno degli Elvis che lo stesso Warhol gli aveva donato (salvo poi dirgli dieci anni dopo che si era pentito, ma Warhol, che apprezzò le scuse, non gliene regalò un altro).

È passato un anno, e Dylan e il suo mondo si sono fatti irriconoscibili. L’incidente di moto del 29 luglio 1966 nei pressi della sua casa di Woodstock, non grave in sé, ma che gli ha rivelato la precarietà delle sue condizioni fisiche, lo ha persuaso ad abbandonare la vita insostenibile delle tournée, delle conferenze stampa e del conflitto con un pubblico che da lui vuole ancora «canzoni di protesta» e non è pronto per la sua nuova musica. Ora è sposato, ha un figlio, vive in campagna e vuole tempo per pensare, sperimentare nuove canzoni nella cantina della tenuta affittata dagli Hawks, e anche distrarsi.

Fa conoscenza con un pittore di nome Bruce Dorfman, suo vicino di casa, ed è con lui che incomincia a dipingere. Come ha raccontato lo stesso Dorfman, Dylan aveva ricevuto in regalo dalla moglie una scatola di oli e pennelli e voleva imparare a usarli. Si presentò un giorno dall’amico con un libro che riproduceva la Ragazza con il flauto di Vermeer e chiese, con la sua abituale mancanza di senso del limite, se poteva provare a realizzare qualcosa in quello stile. Il giorno dopo comparve con un libro di riproduzioni di Monet. Il giorno dopo ancora fu la volta di Van Gogh. Infine tentò con Chagall, e questa volta il motore cominciò a girare.

In breve tempo Dylan si mise a dipingere larghe tele nello stile di Chagall, obbligatoriamente colme di figure umane staccate da terra e di oggetti in precario rapporto con le leggi di gravità. Ma non copiava Chagall. Cercava di visualizzare le proprie canzoni, da All Along the Watchtower a This Wheel’s on Fire. Tecnicamente lasciava molto a desiderare, ma il divertimento era enorme e la dedizione altrettanto sincera. Nel luglio del 1968, insieme al poeta Michael McClure, andò al Guggenheim a New York a vedere una mostra di Chagall e Redon. Ma Redon non lo interessava affatto, ha raccontato McClure. Non aveva occhi che per Chagall.

I risultati di questo innamoramento sono testimoniati, oltre che dagli schizzi inclusi in Writings & Drawings (1972) e nella seconda raccolta delle Lyrics (1985), dalle copertine dei dischi che Dylan disegna in quegli anni: il suo autoritratto per Self Portrait e la scena di musica campestre che orna la copertina di Music from the Big Pink, il primo disco degli Hawks ora ribattezzati The Band. Se l’autoritratto, rozzo ma in qualche modo anticipatore (Dylan si dipinge con un volto più quadrato di quello che si nota nelle fotografie dell’epoca, e più simile a quello che avrebbe avuto in futuro), è come organizzato per blocchi, cubisticamente, la copertina per The Band è compositivamente molto più vicina a Chagall e a certe scene tranquillamente festose di Ben Shahn, con i suoi violinisti più terreni di quelli di Chagall e il suo leggero tocco di realismo sociale (per quanto la nettezza di tratti propria di Ben Shahn fosse al di là delle possibilità pittoriche dylaniane).

Ma che cosa, in Chagall, attirava Dylan? Probabilmente due elementi: la sospensione delle leggi del tempo e dello spazio, vale a dire l’abolizione della successione lineare degli eventi anche quando è discernibile una situazione narrativa, e l’interpretazione poetica della vita dello shtetl, il villaggio ebraico dell’Europa orientale, prima che i pogrom zaristi e i campi di sterminio nazisti lo cancellassero per sempre dalla faccia della terra.

Era il mondo che Benjamin e Lybba Edelstein, i nonni materni di Dylan, avevano lasciato in Lituania emigrando in America nel 1902; un mondo ben presente anche agli occhi dei nonni paterni, Zigman e Anna Zimmerman, che avevano abbandonato la Crimea, dove erano cresciuti, dopo le stragi del 1905, quando lo zar Nicola ii aveva pubblicamente incolpato gli ebrei della crisi economica dell’impero russo, legittimando così le persecuzioni nei loro confronti (in quell’anno, nella sola città di Odessa, furono uccisi più di mille ebrei).

Nel 1968, mentre si immergeva in Chagall, Dylan non sapeva ancora che sei anni dopo avrebbe incontrato un altro superstite di quel mondo, e che anche grazie a lui avrebbe imparato a sospendere le leggi del tempo. Non solo nella pittura però, ma soprattutto nello spazio narrativo della canzone.

Avvenne nella primavera del 1974. Nella sua casa di Malibu, in California, finita la tournée con The Band che per la prima volta dopo otto anni l’aveva riportato sui palcoscenici americani, Dylan e Sara ricevettero la visita di Robin Fertik, un amico di Sara, che parlò loro di uno straordinario maestro di pittura e di filosofia ebraica, operante a New York. A quanto pareva, oltre a insegnare tecniche pittoriche aveva elevato le sue teorie sulla percezione a insegnamento di vita. Quello che colpì Dylan fu che il suo ospite utilizzava rigorosamente le definizioni di amore, bellezza, verità, nonché altre parole teoreticamente impegnative, esattamente come gli erano state insegnate dal filosofo-pittore newyorkese.

In aprile, non appena ebbe occasione di passare qualche giorno a New York, Dylan lo andò a cercare. Si chiamava Norman Raeben. Nel suo studio sulla 57a Strada, all’undicesimo piano del palazzo della Carnegie Hall, teneva corsi di ebraismo, pittura e comprensione del fatto pittorico. Raeben, che portava con vivacità i suoi settantatré anni, non aveva idea di chi fosse Dylan e gli chiese se volesse imparare a dipingere. Dylan gli rispose di sì, che era sua intenzione. «Non so se lei abbia dei titoli per essere qui» lo avvertì Raeben, che non rendeva la vita facile a nessuno. «Vediamo un po’ cosa sa fare». Gli mise davanti agli occhi un vaso, lo tenne in vista per trenta secondi, poi lo fece sparire e disse a Dylan: «Adesso lo dipinga».

Come Dylan stesso raccontò quattro anni dopo, in un’intervista rilasciata al «Dallas Morning News» il 22 dicembre del 1978, in quel momento si rese conto che il vaso l’aveva guardato, ma non l’aveva visto. Ne tracciò un disegno a memoria e lo consegnò a Raeben. Il vecchio pittore borbottò che poteva andare, Dylan era ammesso alle lezioni e doveva andare subito a procurarsi tredici colori di cui Raeben stesso gli diede l’elenco.

Dylan era piuttosto malrasato e malvestito, com’era il suo solito in quegli anni, e non sembrava uno che dormisse in un buon letto. Ignaro delle pose zingaresche predilette da Dylan, Raeben aggiunse che se il suo nuovo allievo non aveva un posto dove stare poteva dormire nello studio facendo in cambio le pulizie. Dylan declinò, ma non c’era modo migliore per accattivarsi la sua simpatia. Era andato da Raeben per curiosità, e invece di tornare in California si iscrisse al corso e lo frequentò per due mesi, per cinque giorni la settimana, dalle otto e trenta del mattino alle quattro del pomeriggio, con la stessa dedizione che aveva riservato anni prima alle canzoni di Woody Guthrie e che avrebbe dedicato cinque anni dopo, all’epoca della sua conversione cristiana, ai corsi di interpretazione biblica della Vineyard Fellowship di Los Angeles.

Dylan non aveva mai preso lezioni da nessuno, se si eccettua un’ora di chitarra da un folksinger di Dinkytown quando era ancora iscritto all’Università del Minnesota, più qualche accorgimento su come variare l’accompagnamento ritmico delle canzoni, suggeritogli da Lonnie Johnson al Village (ne dà un resoconto incredibilmente ingarbugliato in Chronicles Volume 1, dove non si capisce se parli di triadi o di terzine). Incorreggibilmente autodidatta, con tutta l’intransigenza e l’ingenuità che l’autodidattismo comporta, infine aveva incontrato un maestro.

E se Dylan non fosse stato tra i suoi studenti, di lui sapremmo ancora meno di quel poco che sappiamo. Dylan stesso ha rivelato che Raeben si era stabilito in America negli anni venti o trenta (in realtà nel 1914), era di corporatura robusta e prima di diventare ritrattista si era guadagnato da vivere facendo il pugile. Ma intorno al 1920 era andato a vivere a Parigi dove aveva conosciuto Picasso, Modigliani, Chagall, ed era stato amico di Soutine. Era in grado di conversare su qualunque argomento e lo faceva in sette lingue. Dylan ha taciuto, o forse non conosceva, un particolare importante: che Norman Raeben, nato Numa Rabinovitz nel 1901 in Ucraina, era il figlio più giovane di Shalom Rabinovitz, più noto come Shalom Aleichem, il padre fondatore della moderna letteratura yiddish.

«Norman Raeben, il maestro segreto di Bob Dylan» è tratto da
La voce di Bob Dylan
di Alessandro Carrera, terza edizione ampliata, Feltrinelli 2021, 528 pp, 24 Euro


Nota. L’influenza di Raeben è molto forte nelle canzoni di Dylan degli anni settanta, soprattutto in quelle narrative incluse in Blood on the Tracks, DesireStreet Legal. Le maggiori informazioni su Raeben, del quale non si sa molto, sono raccolte nel volume Bob Dylan and the Arts: Songs, Film, Painting, and Sculpture in Dylan’s Universe, in parte in italiano e in parte in inglese, a cura di Maria Anita Stefanelli, Alessandro Carrera e Fabio Fantuzzi (Edizioni di Storia e Letteratura, 2021).

Leggi anche
DISEGNARE DYLAN
I COLORI DI BOB DYLAN
NOBEL ON THE ROAD

Bibliografia dei disegni e cataloghi d’arte di Bob Dylan

Writings and Drawings by Bob Dylan, Knopf, New York 1973 [testi e disegni].
Drawn Blank, Random House, New York 1994 [disegni].
The Drawn Blank Series: Watercolor and Gouache, a cura di I. Mossinger e K.
Dreschel, Prestel Verlag, München 2007.
Bob Dylan: The Brazil Series, a cura di J. Elderfield e K. Monrad, Prestel Verlag,
München 2010 [catalogo].
Bob Dylan: The Asia Series, a cura di R. Prince e J. Elderfield, Gagosian Gallery,
New York 2011 [catalogo].
Bob Dylan: Drawings and Paintings. The Drawn Blank Series, Halcyon Gallery,
London 2013.
Revisionist Art: Thirty Works by Bob Dylan, a cura di L. Sante e B. Clavery, Harry
N. Abrams Editions, New York 2013 [catalogo].
Face Value, a cura di J. Elderfield, con una conversazione con Bob Dylan, National Portrait Gallery, London 2014.
The Beaten Path, Halcyon Gallery, London 2016 [catalogo].
Mondo Scripto: Art, Drawings, Lyrics, Poems, Halcyon Gallery, London 2018,
20202 [catalogo].

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