L’architettura è il modello della socialità

La Biennale di Architettura presentata dal direttore Hashim Sarkis: 112 partecipanti da 46 Paesi e 63 Padiglioni Nazionali

Hashim Sarkis. Foto Jacopo Salvi, Cortesia della Biennale di Venezia
Veronica Rodenigo |  | Venezia

È trascorso un anno da quando la Biennale di Venezia, cedendo all’emergenza pandemica, si è vista costretta a posticipare al 2021 la 17. Mostra Internazionale di Architettura, curata da Hashim Sarkis, architetto d’origine libanese, docente universitario e direttore della School of Architecture and Planning del Massachusetts Institute of Technology. Però non è stato un anno perso, come specifica Roberto Cicutto, presidente dell’Istituzione veneziana. Nel frattempo molto è stato approfondito, rielaborato e rimodulato, osservando le inevitabili ripercussioni della situazione sanitaria.

E ora, in tempi di distanziamento sociale, il titolo e tema «How will we live together?», scelto prima che il Covid-19 sconvolgesse il mondo, assume un nuovo significato e rende l’interrogativo ancora più rilevante e appropriato. «“How will we live together?” è una domanda tanto sociale e politica quanto spaziale. Aristotele, quando si pose questa domanda per definire la politica, propose il modello di città», spiega Sarkis. Il modo in cui l’architettura dà forma all’abitazione è un potenziale modello di come potremmo vivere insieme.

«Abbiamo bisogno di un nuovo contratto spaziale. In un contesto caratterizzato da divergenze politiche sempre più ampie e da disuguaglianze economiche sempre maggiori, chiediamo agli architetti di immaginare degli spazi nei quali vivere generosamente insieme. La Biennale Architettura 2021 vuole così affermare il ruolo essenziale dell’architetto, che è quello di affabile “convener” e custode del contratto spaziale. La politica e le politiche stabiliscono i termini e i processi per la vita collettiva, ma le persone si riuniscono nello spazio e lo spazio contribuisce a plasmare e trasformare il contratto sociale stabilito. Non possiamo più aspettare che siano i politici a proporre un percorso verso un futuro migliore», aggiunge Sarkis.

Ecco allora entrare in gioco la Biennale, interprete e veicolatrice di possibili prospettive illustrate nella Mostra internazionale, articolata tra Padiglione Centrale, Giardini, Arsenale e Forte Marghera con 112 partecipanti da 46 Paesi e una rappresentanza crescente da Africa, America Latina e Asia. Sono invece 63 le Partecipazioni Nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia. Quattro i Paesi presenti per la prima volta alla Biennale Architettura: Uzbekistan, Repubblica dell’Azerbaigian, Grenada e Iraq.

Intanto in questi mesi di attesa, video, immagini, interviste e la playlist di «Biennale Sneak Peek», il progetto online sul sito ufficiale e le piattaforme social hanno reso possibile un primo avvicinamento a Partecipanti e Padiglioni. Dopo l’assegnazione di uno speciale Leone d’Oro alla Memoria a Lina Bo Bardi, sabato 22 maggio la  17ma Biennale Architettura apre finalmente al pubblico (in presenza) e con tutte le misure precauzionali necessarie sarà possibile visitarla fino a domenica 21 novembre.

La Mostra «How will we live together?» èdeclinata attraverso cinque grandi scale. Le prime tre, intitolate «Among Diverse Beings», «As New Households» e «As Emerging Communities», sono allestite negli spazi dell’Arsenale. Qui Sarkis affronta i cambiamenti sulla percezione del corpo umano alla luce dei mutamenti demografici, delle nuove forme di coabitazione, degli spazi sociali (di svago, cura, istruzione) e delle situazioni emergenziali di profughi e immigrati.

Le altre due scale, «Across Borders» e «As One Planet», al Padiglione Centrale ai Giardini, analizzano il tema della migliore distribuzione delle risorse comuni, la necessità di mitigare le differenze sociali ed economiche tra città globalizzate e il degrado ambientale, con inoltre la sottosezione «Networking Space» sui collegamenti fra Terra e Spazio.

Alla struttura portante delle cinque scale si aggiungono poi: «Stations» e «Co-Habitats», ricerche fuori concorso sui temi della Mostra sviluppate da ricercatori di università di tutto il mondo; il progetto speciale di Studio Other Spaces (rappresentato da Olafur Eliasson e Sebastian Behmann); l’installazione di Giuseppe Penone in Arsenale (evento speciale della Vuslat Foundation); la collaborazione con il 15mo Festival Internazionale di Danza Contemporanea (con performance dal 23 luglio al 1 agosto sempre in Arsenale) e «Three British Mosques», il progetto al Padiglione delle Arti Applicate sviluppato anche quest’anno con il V&A Museum di Londra e con la collaborazione dell’architetto Shahed Saleem. L’estensione prosegue anche in terraferma,al parco di Forte Marghera (Mestre) con cinque architetti e un fotografo di architettura autori del progetto dedicato al gioco, intitolato «How Will We Play Together?».

Sono in tutto 63 le partecipazioni nazionali. Tra le new entry, l’Uzbekistan, con la mostra intitolata «Mahalla Rural Urban Living». Curata da Emanuel Christ e Christoph Gantenbein, riflette sulla mahalla come forma antica e contemporanea di convivenza, domandandosi se l’organizzazione sociale di questi quartieri con le tipiche formazioni architettoniche fatte di strutture a pochi piani, ma ad alta densità, possono offrire alla società urbana un modello sostenibile ed ecologico.

«Storicamente le mahalla sono state potenti centri culturali ed efficaci enti di autogoverno», afferma Saida Mirziyoyeva, vicepresidente del Consiglio di Fondazione della Fondazione Pubblica per il Sostegno e lo Sviluppo dei Mass Media Nazionali. Partendo da un’approfondita ricerca e documentazione di questo patrimonio, il progetto prende forma attraverso il plastico di una mahalla che occupa l’intera Quarta Tesa, accompagnata dai suoni delle mahalla registrati da Carlos Casas e dagli scatti di Bas Princen.

Tra i Padiglioni ai Giardini, quello russo propone un progetto (per ora) interamente online intitolato «Open?», a cura di Ippolito Pestellini Laparelli: un work in progress che ha come oggetto il restauro dello stesso padiglione attraverso una call con cui sono stati selezionati giovani architetti russi e collettivi multidisciplinari. Il risultato? Un laboratorio sperimentale con varie e interessanti proposte fra cui un videogame ambientato in uno scenario post apocalittico.

Con «Co-ownership of Action: Trajectories of Elements», a cura di Kozo Kadowaki, il Giappone si propone di portare e ricostruire a Venezia una piccola e ordinaria unità abitativa di Tokyo appositamente demolita. Una vera e propria sfida per le difficoltà di movimentazione in tempo di Covid. L’Austria con «Platform Austria», a cura di Peter Mörtenböck e Helge Mooshammer, riflette invece sul ruolo delle piattaforme digitali che durante la pandemia hanno cambiato il modo con cui ognuno di noi lavora, acquista, socializza e che stanno anche cambiando le nostre città.

Per la Francia «Les communautés à l’œuvre»  (Le comunità al lavoro) di Christophe Hutin è il risultato di un viaggio lungo un anno in Vietnam, Africa del Sud, Francia e Stati Uniti. Il Padiglione britannico, invece, con «The Garden of Privatized Delights» a cura di Manijeh Verghese e Madeleine Kessler, s’interroga sulla privatizzazione dello spazio pubblico in Gran Bretagna, con una mostra immersiva che trae ispirazione dal «Trittico delle delizie» di Hieronymus Bosch.

Infine il Padiglione Italia di Alessandro Melis porta le «Comunità resilienti» al centro della propria riflessione, riutilizzando al 100% l’allestimento di «Né altra né questa. La sfida al Labirinto» voluto da Milovan Farronato per il Padiglione Italia della Biennale Arte 2019. Del resto per Melis, architetto, docente universitario e direttore del Cluster for Sustainable Cities alla University of Portsmouth (UK), l’approccio non sarebbe potuto esser diverso. La premessa è la crisi climatica come la più grande sfida che l’umanità deve affrontare. Necessario, dunque, promuovere un radicale ripensamento e un cambio di paradigma non solo dei nostri consumi, ma di tutto il tessuto urbano.

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