Prelazione o usucapione?

Il fondamento paritetico di due diritti contrapposti nel trasferimento della proprietà dei beni culturali

The Gardener (1889), di Vincent Van Gogh
Fabrizio Lemme |

Dopo cinque anni ritorno su un argomento che già ho affrontato su questo giornale e che, per la sua notevole importanza nella materia della circolazione interna dei beni culturali, merita ulteriori attenzione e riflessione.

Procediamo con ordine. Il trasferimento della proprietà dei beni culturali di enti ecclesiastici, in linea di massima soggetti alle disposizioni del Codice Civile (art. 831), in virtù della legge speciale è sottoposto ad autorizzazione: infatti, l’art. 56/1 lett. b) D.Lgs. 42/04 esplicitamente prevede l’obbligo dell’autorizzazione ministeriale per «l’alienazione dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici… o a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti».

Il trasferimento non autorizzato è nullo e la Pubblica Amministrazione competente può esercitare la prelazione, ai sensi dell’art. 61/2 cit. D.Lgs., in virtù del disposto di cui all’art. 164, I e II comma: vale a dire, entro il termine di 180 giorni dal momento in cui il Ministero ha acquisito gli elementi costitutivi dell’atto di trasferimento di cui è stata omessa la denunzia.

Consegue che: a. l’esercizio del diritto di prelazione, come potestà ablativa sovrana dello Stato, non è soggetto a prescrizione (art. 2934/2 c.c.); b. esso è peraltro soggetto a un termine di decadenza, che decorre dal momento in cui lo Stato abbia comunque acquisito piena conoscenza degli elementi costitutivi dell’atto di alienazione del quale sia stata omessa la denunzia.

L’ipotesi più frequente è quella dell’alienazione abusiva da parte del parroco: questi, per provvedere a esigenze straordinarie del Beneficio Parrocchiale, aliena beni culturali senza neppure chiedere un qualsiasi (peraltro improbabile) provvedimento autorizzatorio. In tal caso lo Stato, senza limiti di tempo, può esercitare il diritto di prelazione, il cui esercizio è sottoposto, come già detto, a un termine di decadenza.
L’alienazione abusiva, oltre a legittimare il potere ablativo dello Stato, esercitabile, come già scritto, senza limiti di tempo, costituisce altresì delitto, punibile con la reclusione e la multa ai sensi dell’art. 173/1 lett. a).

La consegna della cosa all’acquirente è, come l’alienazione, egualmente interdetta e da questo consegue sia impedito l’acquisto immediato in favore dell’acquirente di buona fede, ai sensi dell’art. 1153 c.c., acquisto che prevede una valida «traditio» (ossia, consegna).
In tal senso, infatti, decise la Cassazione Civile, con una sentenza ormai risalente (I Civile, 7 aprile 1992 n. 4260), alla quale peraltro non hanno fatto seguito, almeno per quanto a mia conoscenza, ulteriori e diverse pronunzie.

Ci si chiede a questo punto se l’acquirente, indipendentemente dalla buona fede, possa divenire proprietario del bene da lui acquistato, per effetto del «possesso continuato per venti anni» (art. 1158 c.c.). Infatti, la risposta positiva porrebbe un limite temporale alla potestà ablativa dello Stato che, come esposto, non è soggetta ad alcuna prescrizione, ma solo a una speciale decadenza. In altri termini, come si conciliano i due opposti principi dell’acquisto per usucapione e della potestà ablativa dello Stato, esercitabile senza limitazioni temporali?

Per dare risposta è necessario risalire al fondamento dell’acquisto per usucapione, istituto della nostra civiltà giuridica a partire dal Diritto Romano.
In un testo fondamentale, il Digesto, si rinviene (41, 3, 1) un passo di Gaio, nel quale si afferma che l’usucapione è stata introdotta per l’esigenza pubblica («bono publico») che si potesse acquisire, sia pure con il decorso di un lungo lasso di tempo, la certezza del dominio. Dunque, il fondamento dei due diritti contrapposti è paritetico: entrambi, infatti, corrispondono a esigenze di pubblica utilità.

Peraltro, in favore dell’usucapione milita anche un’ulteriore considerazione: il principio di ragionevolezza, insito da sempre nelle istituzioni giuridiche, ma particolarmente sentito nel diritto dell’Unione Europea, che ne fa larga applicazione, con la conseguenza che esso ormai faccia parte del nostro «diritto vivente».

In particolare, e con riferimento a un’alienazione abusiva (il ritratto dell’ortolano del Manicomio di Arles, fatto da Vincent van Gogh che ne fu ospite), la Corte di Strasburgo ne fece applicazione. Essa era stata adita dal grande mercante Beyeler di Basilea contro lo Stato italiano. Egli lamentava che il diritto di acquisto all’esportazione, non preceduto da una richiesta di autorizzazione conforme all’art. 59 D.Lgs., era stato esercitato oltre ogni «ragionevolezza temporale». Era pertanto quantomeno illecita la pretesa di pagare, nell’esercizio della potestà di acquisto all’esportazione, lo stesso prezzo pattuito in un atto di vendita di alcuni anni prima.

La Corte dichiarò appunto che tale pretesa «non era ragionevole» (sentenza 5 maggio 2000). Lo Stato italiano, pertanto, dovette aggiungere gli interessi maturati sul prezzo, ma l’acquisto non venne dichiarato illegittimo e il dipinto si può ammirare presso la Gnam di Roma. Peraltro, ai fini che a noi interessano, è significativo che la Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) abbia fatto ricorso a questo canone di ragionevolezza.

Traiamo allora delle conclusioni. Nella ricerca di una giusta conciliazione tra diritto di acquisto dello Stato e usucapione ventennale (ossia, usucapione che matura a distanza di vent’anni dall’acquisto), deve ritenersi che la seconda prevalga sul primo e quindi lo Stato mai potrà esercitare, perché temporalmente irragionevole, il proprio diritto in danno di chi abbia acquistato per intervenuta usucapione ventennale.

È poi un problema legato alla singola fattispecie l’accertamento della prova del possesso da parte di chi alleghi l’usucapione, eventualmente facendo ricorso anche all’«accessione nel possesso», in virtù della quale (art. 1146/2 c.c.) l’attuale possessore «può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti».

Altra regola applicabile è quella della «presunzione di possesso intermedio» (art. 1142 c.c.): in virtù della stessa, «il possessore attuale che ha posseduto in tempo più remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo intermedio». Ripeto: i principi sono (almeno così ritengo) quelli che ho prima enunciato.

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