IL MUSEO INFINITO | La Pinacoteca Vaticana

Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. Il Settecento

Giuseppe Maria Crespi, «Ritratto di Benedetto XIV», 1740, olio su tela, dai Palazzi Vaticani. Pinacoteca Vaticana, inv. 40158 Pompeo Batoni, «Ritratto di Pio VI», 1775, olio su tela, dai Palazzi Vaticani. Pinacoteca Vaticana, inv. 40455 Thomas Lawrence, «Ritratto di Giorgio IV d’Inghilterra», 1819, olio su tela, dono di Giorgio IV a Pio VII. Pinacoteca Vaticana, inv. 40448 Carlo Maratta, «Ritratto di Clemente IX», 1669, olio su tela, dalla collezione Rospigliosi. Pinacoteca Vaticana, inv. 40460 Donato Creti, uno di otto pannelli con le «Osservazioni astronomiche», 1711, olio su tela (particolare), dono del conte Luigi Marsili di Bologna a Clemente XI. Pinacoteca Vaticana, invv. 40432-40439
Guido Cornini |  | Roma

Guido Cornini, storico dell’arte medievale e moderna, delegato scientifico della Direzione dei Musei Vaticani, ci accompagna tra le sale della Pinacoteca Vaticana.

Nella sala XV abbiamo quello che potremmo definire invece un «ospite minore», sul quale vale però la pena soffermarsi.

Purtroppo il Settecento romano non lascia grande traccia di sé nella Pinacoteca Vaticana. Ciò non toglie che proprio qui si possano ammirare «perle» che testimoniano i fasti di una stagione fortunata della nostra storia artistica. Pier Leone Ghezzi, Giuseppe Maria Crespi, Pompeo Batoni, e Corrado Giaquinto (ma anche Francesco Trevisani, Sebastiano Conca, Francesco Mancini e Gaetano Gandolfi) sono solo alcuni dei nomi presenti nell’ultimo ambiente dell’esposizione.

Tutti, benché di origine e formazione diversa, vennero a Roma per tentare la sorte e per tutti Roma divenne, almeno per un certo periodo della loro esistenza, la comune patria adottiva. Conca e Trevisani, ad esempio, lasciarono nelle grandi tele del «Martirio di San Turibio», del primo, eseguito nel 1726, in occasione della canonizzazione del Santo, e nella «Samaritana al pozzo» del secondo, realizzato ante 1740 per il cardinal Ottoboni, testimonianze notevoli del loro soggiorno nella capitale.

Su un piano diverso, Ghezzi dipinge per la Sagrestia di San Pietro due «Storie di San Clemente» (ce ne era originariamente una terza) che si impongono per monumentalità di taglio e didascalicità di linguaggio (1725). Oltre che pittori di apparati, di mitologia e di storia sacra, molti di loro furono anche eccellenti ritrattisti. Il «Ritratto di Clemente IX» di Carlo Maratta (1669) è il più antico esemplare della serie: con l’impostazione scorciata della scena, lo scavo psicologico del personaggio, la fluidità stessa dell’impasto pittorico, intriso di luce e di colore, l’immagine si pone come uno dei raggiungimenti più alti del suo autore, che fu Principe dell’Accademia di San Luca e che lasciò in eredità ai decenni successivi una formula di memorizzazione aulica del modello, nella tradizione della ritrattistica «parlante» del Bernini.

Il «Ritratto di Benedetto XIV» del Crespi è invece un felice esempio di composizione a figura intera, iniziata dal pittore nel 1739 e portata a termine l’anno successivo. Le radiografie dimostrano che l’impostazione iniziale del prelato, ritratto in vesti cardinalizie quando era ancora arcivescovo di Bologna, dovette essere modificata e adeguata alla nuova dignità pontificia, una volta che questi, noto al secolo come Prospero Lambertini, venne eletto papa il 17 agosto 1740.

La verità della descrizione fisionomica, affidata a poche pennellate rapide e compendiarie, e la resa virtuosistica degli oggetti, radunati all’intorno come attributi della persona, convivono con il tratteggio ironico della figura alle spalle, inserita nel fondo con esiti quasi caricaturali. Qualche decennio più tardi, il «Ritratto di Pio VI» del lucchese Pompeo Batoni (1775), referente internazionale di azzimati viaggiatori inglesi, aggiorna in senso ormai neoclassico la collaudata tipologia marattesca, dividendosi con eguale attenzione tra l’illustre effigiato e la pendola da tavola che gli sta accanto: squisito esemplare di oreficeria profana (Valadier?), di cui il pontefice fu avido collezionista.

La galleria di personalità illustri presenti nella sala si chiude con il «Ritratto di Giorgio IV d’Inghilterra» di Thomas Lawrence, firmato e datato 1816. Anche in questo caso, come già per il Cranach, si tratta di una presenza relativamente insolita per una collezione romana, che si spiega però con la cordialità dei rapporti instaurati con la corona britannica all’indomani del Congresso di Vienna (1815-16). In segno di riconoscenza per l’aiuto prestato al Canova per il recupero delle opere d’arte, Pio VII aveva fatto dono al sovrano di un proprio ritratto, eseguito appositamente da Pompeo Batoni, oggi nelle gallerie di Buckingham Palace.

Re Giorgio contraccambia a sua volta con questo dipinto, che lo ritrae con le insegne dell’Ordine della Giarrettiera, accanto alla «Table des Capitains», donatagli dal re di Francia Luigi XVIII.  Si tratta di un quadro intenzionalmente fastoso, nella linea di Rubens e Van Dick, di mano di un artista che fu tra i principali innovatori del proprio tempo. Difficilmente, in Europa o altrove, può trovarsi un’opera più rappresentativa del clima di illusoria speranza che, vera o simulata che fosse, la Restaurazione tentò di alimentare all’indomani della sconfitta francese.

Testimonianza davvero inaspettata di un pezzo di storia cruciale per tutta l’Europa. Prima di abbandonare la sala, però, c’è una curiosa presenza su cui vorrei richiamasse la nostra attenzione.
Nessun visitatore dei Musei Vaticani, conoscitore o turista che sia, abbandona la Pinacoteca senza essersi prima soffermato davanti a queste «Osservazione astronomiche», serie di otto quadretti risalenti al 1711 e raffiguranti il Sole, la Luna, Mercurio, Marte, Giove, Saturno, nonché una cometa, descritti ciascuno nella propria individualità, così come apparivano osservati al telescopio, entro paesaggi popolati di alberi e figurine.

Si tratta della prima rappresentazione organica del sistema solare, nei limiti delle cognizioni allora possedute (manca ad esempio il pianeta Urano, che sarà scoperto solo più tardi, nel 1781), commissionata dal conte Luigi Ferdinando Marsili di Bologna, scienziato e astronomo dilettante, e da lui donata a Clemente XI come incitamento alla costruzione di una nuova specola, poi realizzatasi con la costruzione dell’osservatorio annesso al locale Istituto delle Scienze (1711).

Autore delle vedute fu il cremonese Donato Creti, pittore di formazione emiliana, poi Principe dell’Accademia Clementina e creatore di dipinti a tema mitologico e pastorale di grande successo: ma a dipingere le apparenze dei corpi celesti fu chiamato il miniaturista Raimondo Manzini, abile illustratore di soggetti geologici, botanici e zoologici («naturalia»), secondo le indicazioni dell’astronomo Eustachio Manfredi. Un tratto di curiosità che non tutti conoscono è che i personaggi che animano i paesaggi non sono rappresentati con abiti del tempo, ma sono in qualche modo «retrodatati». Le loro vesti, difatti, fanno pensare più a costumi del XVI secolo che del XVIII, con l’effetto di allontanare nel tempo, oltre che nello spazio, le scene cui stiamo assistendo.

In conclusione di questo itinerario, qual è il senso profondo di una visita alla Pinacoteca Vaticana, in questo particolare momento in cui attendiamo di tornare finalmente nei Musei?

I Musei Vaticani sono un organismo complesso, giustamente declinato al plurale per l’originarsi e il differenziarsi delle diverse collezioni, e ciascun visitatore può seguire un percorso guidato dal proprio interesse di fondo. La Pinacoteca è in certo modo un osservatorio privilegiato per comprendere questa pluralità di accenti, la stratificazione nel tempo delle stesse raccolte. Gli interessi di chi entra nei nostri musei possono essere vari – c’è chi magari può essere mosso da una ragione territoriale, o chi abbia a cuore la conoscenza dell’arte, così come si è espressa a servizio dei Papi: ma qui in Pinacoteca si ha un ottimo spaccato del collezionismo nel tempo.

Certamente, la Pinacoteca è un settore meno frequentato dal turismo di massa: penso però che, al momento della riapertura, ci saranno lo spazio e il tempo adatti per una tipologia di visita più approfondita, maggiormente disponibile alla ricerca di opere meno viste o note.

Quando abbiamo riaperto al pubblico nel giugno scorso, dopo il lockdown, abbiamo incontrato le prime persone che hanno fatto la fila per entrare ai Musei: i componenti di una famiglia di Roma ci hanno detto che questa era per loro la prima volta, le lunghe code all’entrata li avevano sempre scoraggiati. Questa affermazione è stata per noi profetica e beneaugurante, moltissimi romani sono venuti e ci auguriamo che presto tornino a venire. Gli italiani del resto, in questi Musei si vedono perfettamente riflessi in quello che, un tempo, si sarebbe definito, il genio nazionale.

IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti

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