Anche per restaurare prima bisogna saper dialogare

Come superare le barriere della compartimentazione tra beni architettonici e beni artistici?

Simona Sajeva |

Che lo si affronti sul piano teorico o pratico, il restauro necessita di conoscenza, progetto e intervento, specialmente nell’ambito di manufatti complessi come le decorazioni architettoniche. In uno scenario ottimale si comincia dalla conoscenza, seguita dalla progettazione: entrambe dovrebbero trovare attuazione in cantiere con gli interventi. Nella pratica tutto questo è meno ovvio.

La conoscenza ha bisogno di tempi e spazi dedicati, poiché nasce dal confronto sia con il manufatto sia con le fonti documentarie. Oltre al titolare per eccellenza, il restauratore, sono spesso necessarie molte altre competenze, alcune di base, altre variabili. Ogni figura indaga nel proprio campo, in genere con una preordinata finalità: un quesito preciso, il bisogno di approfondire o, ancora, la speranza di contribuire alla risoluzione di una situazione indecifrata ecc.

Nella pratica ordinaria, però, avviene una selezione e tra i molti dati raccolti soltanto quelli riconosciuti come utili e pertinenti vengono documentati nelle forme previste da ogni disciplina, gli altri no. Ciò sebbene sia proprio la documentazione, oltre a riunioni e incontri, a rendere informazioni e risultati condivisibili. La progettazione dovrebbe far confluire tutti i contributi nella formulazione di soluzioni tecniche che tengano conto di tutto lo spettro dell’analisi conoscitiva, dall’umanistico al tecnico, allo scientifico.

Problematiche apparentemente non dialoganti dovrebbero trovare in questa fase una risoluzione armoniosa. Quantità e qualità delle informazioni ottenute, e della loro documentazione, giocano un ruolo essenziale nell’efficacia del progetto. L’intervento dovrebbe usare il progetto come carta di navigazione, in realtà è il momento in cui tutti i nodi, se presenti, vengono al pettine. Idealmente le tre fasi possono dialogare tra loro, oltre che essere reiterate e approfondite secondo i bisogni. Nella pratica questo iter è funzione delle condizioni di lavoro, ma offre comunque la possibilità di fare del restauro quel momento di riconoscibilità dell’opera di brandiana memoria.

Ora è chiaro che in questo processo lo sguardo proprio di ogni professionista, lo spirito critico, unito alla capacità di guardare al manufatto senza pregiudizio, oltre che la sensibilità di cogliere l’interesse più generale che un dato può presentare giocano un ruolo essenziale nel ricercare, selezionare e documentare le informazioni utili. Ogni professionista ha le proprie esperienze e basandomi sulle mie riscontro che la condivisione effettiva e non solo formale dei contenuti rilevati e la loro messa in relazione sono affidate a fortunate circostanze, reciproche volontà e capacità, sforzi di comprendere e comprendersi.

Personalmente le prime barriere che ho incontrato come ingegnere riguardavano la compartimentazione tra beni architettonici e beni artistici. Studiare, come faccio, l’influenza che le strutture hanno sulla conservazione delle decorazioni architettoniche sarebbe a tutt’oggi impensabile con queste premesse.

Nel tempo, caso dopo caso, mi sono resa conto che la divisione non è solo formale, ma più profonda. Questo aspetto mi ha spinta a trovare altri modi. Un recente articolo «Restauro e nuove tecnologie» di Antonio Forcellino sul Giornale dell'Arte ha riportato i miei pensieri su quest’argomento, ma da un’altra angolazione. L’autore parlava in particolare del problema che deve affrontare il restauratore nella comunicazione dei dati che recepisce nel corso del restauro.

Antonio Forcellino riportava l’esperienza personale nel ricorrere a mezzi meno tradizionali, come i video da cellulare, per condividere sue osservazioni che altrimenti sarebbero andate perdute, per esempio nei casi della Tomba di Giulio II o della Madonna Medici. Tanta schiettezza su un problema scomodo mi ha spinta a contattare l’autore per uno scambio di idee sull’argomento. Quasi subito la conversazione è andata dallo stato delle cose alle cause che lo originano e lo mantengono. Gli aspetti sono tanti e malgrado la riflessione abbia portato, come nell’articolo, allo sguardo del restauratore e alla comunicabilità dei dati che derivano dalla sua specifica analisi (soprattutto se di tipo critico e filologico), le considerazioni fatte sono applicabili anche alle altre professionalità: storici, chimici, architetti, fisici, geologi, ingegneri e così via, a seconda dei bisogni del manufatto.

Oltre a quanto già osservato, guardando allo stato delle cose sicuramente nella fase di scambio ci sono però altri impedimenti: l’assenza dei tempi e dei modi per una condivisione effettiva e allargata. Manca inoltre uno specifico coordinamento. C’è poi il misconoscimento dei linguaggi e quindi dei concetti propri delle altre discipline, o peggio, l’illusione di conoscerli. Si rileva anche il timore che, mettendo l’altro in condizioni di comprendere, lo si legittima all’invasione del proprio campo disciplinare, quindi anche a esprimersi sul proprio operato o, peggio, appropriarsene. Oppure più semplicemente interviene la demotivazione derivante dal mancato riconoscimento di uno sforzo fatto di lavoro e di tempo.

Lungi dall’essere risolutiva un’osservazione positiva è possibile: pochi ma impegnativi cambiamenti su due fronti potrebbero produrre un miglioramento. Il primo sarebbe riconoscere, anche economicamente, la fase di ricerca, studio e documentazione là dove non lo è. Ancor meglio legittimandone tempi e risorse precise all’interno del processo anche progettuale. Il secondo riguarda la formazione, o per meglio dire l’educazione. L’educazione al confronto critico e costruttivo con l’altro, che non vuol dire diventare tuttologi ma immedesimarsi nel complesso di bisogni e problematiche che necessariamente coinvolgono gli interlocutori.

Entrambi i summenzionati cambiamenti comportano oneri e questo è un fatto. Va osservato inoltre che la moderna formazione dei restauratori risulta di recente strutturazione se confrontata ad altre formazioni chiamate a intervenire in un contesto architettonico. Di fatto, senza che ce ne sia una piena e condivisa consapevolezza, coesistono visioni diverse del processo conoscitivo, progettuale e di intervento. E questo è ancora un altro fatto.

Eppure la consueta analogia tra restauro e medicina rende lampante il surrealismo di questa situazione. Semplicisticamente, s’immagini un anestesista che in sala operatoria non sappia o non voglia comunicare le proprie informazioni al resto dell’équipe, e così via il chirurgo, i ferristi ecc. Le conseguenze sono facilmente immaginabili.

Questo stato di cose che ci tramandiamo dall’alba delle attuali istituzioni competenti ha fatto sì che la mancata condivisione effettiva sia accettata come normale. Eppure l’iter conoscenza-progetto-intervento è uno spazio comune e di incontro, garante sia dei contenuti sia delle diverse titolarità di questi e come tale non richiede altro che essere attualizzato e legittimizzato nei suoi nuovi bisogni.

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