La cultura non è un divertissement

Parla Sergio Campagnolo, fondatore di Studio Esseci, tra i più noti enti privati di comunicazione per il mondo dell’arte

Sergio Campagnolo
Veronica Rodenigo |  | Padova

Sergio Campagnolo da 34 anni dirige Studio Esseci, uno tra i più noti studi di comunicazione per il mondo dell’arte. Il suo percorso inizia come giornalista nel 1978; nel 1980 approda all’ufficio stampa di una mostra per poi passare all’ambito medico-scientifico e al sociale. Collabora per tre anni con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, diventa addetto stampa di una Asl veneta ma nel 1986 sceglie di abbandonare l’incarico per fondare a Padova lo studio che porta le sue iniziali e che oggi continua a dirigere spaziando, per precisa scelta, anche in settori diversi da quello artistico. Accantonata Medicina, si laurea in Sociologia e ancora in Lettere e dal 2013 è docente al Master in Comunicazione Scientifica dell’Università di Padova.

Com’è cambiato negli ultimi anni il modo di fare comunicazione?

Si sono rivoluzionati i mezzi ma non il lavoro nel senso che esso è, sempre e ancora, fatto di relazioni, contatti umani, idee, tenacia e passione.
Naturalmente è mutato lo scenario, sono mutati i media e le tecnologie; sono diverse le esigenze dei clienti, sono cambiati il mondo delle mostre e il mondo. Ricordo (si era a metà degli anni ’80) una scena emblematica. Mi trovavo con il curatore in una mostra allestita a Palazzo della Ragione a Padova. Costui, illustre studioso, vedendo entrare due signore, casalinghe con le loro borse della spesa, si chiese «cosa venissero a fare quelle» alla «sua» mostra. Ecco oggi questo sarebbe inconcepibile.

Si assiste semmai a una corsa a
catturare i visitatori, in un clima di concorrenza talvolta esasperata. Il settore delle mostre è, e non solo in questo anno del Covid-19, in affanno. Per il numero forse esorbitante di proposte, per l’aumentare del loro costo, anche per le sempre maggiori difficoltà organizzative. Questo ha avuto riflessi negativi anche sul nostro lavoro: programmazioni all’ultimo, budget ridotti, necessità di ottenere risultati di pubblico più che di critica. Ma, alla fine, anche le mostre sono riflesso dei tempi.

Alcuni studi di comunicazione stanno strutturando veri e propri focus di approfondimento in forma autonoma, anche con contributi esterni, e con un palinsesto diffuso tramite newsletter o con sezione dedicata sul loro sito internet che spazia talvolta oltre i committenti. Come giudica questa operazione? Può essere interpretata come un modo per  supplire a una risposta dei media che non soddisfa più per spazi e qualità dei contenuti?

Si tratta di esperienze decisamente interessanti, utili a creare o rafforzare il dibattito e il senso di appartenenza all’interno della cerchia degli addetti ai lavori. Ciò che mi chiedo ogni giorno è come uscire da quell’ambito per riuscire a parlare alla persona che non ha una specifica preparazione culturale ma che è semplicemente curiosa e disponibile a gestire una parte del proprio tempo libero per visitare, magari insieme agli amici, una mostra o un museo. È questo l’obiettivo più complesso che la comunicazione deve porsi.

A mio avviso la  tradizionale recensione è fondamentale, ma debbono essere perseguite uscite su altri media e altri spazi, scritti, radiotelediffusi e online. Tutti questi, ovviamente, richiedono tecniche e modalità di volta in volta specifiche, riconfezionando la notizia a seconda del destinatario
.

A riguardo, quali sono le tematiche oggi più difficili da «far passare» su una testata e come cercate di ovviarvi?

Credo sia necessario piegare la notizia al medium anziché piegare il medium alla notizia. Certo, funzionano i grandi nomi ma anche le belle storie e il binomio mostra-luogo. Sempre più, ribadisco, la notizia va confezionata «tailor-made», vestita su ciascun interlocutore. L’ufficio stampa oggi va oltre la tradizionale funzione di collegamento tra cliente e media; in molti casi si trasforma esso stesso in un medium per raggiungere il pubblico andando, nel nostro caso, a raggiungere non tanto i potenziali singoli quanto quelli che si muovono in gruppo.

Per ogni mostra riusciamo a raggiungere il bacino d’utenza delle associazioni culturali e del tempo libero in un raggio di 150 km dalla sede espositiva, allargando la visita alla mostra o al museo ad altri aspetti del territorio. Stiamo anche approfondendo la relazione con i gestori dei servizi privati di trasporto così come stiamo lavorando, ancora senza grande riscontro, sulle minoranze straniere presenti nei diversi territori.
Adesso questi futuri italiani si misurano con necessità più impellenti, ma sono convinto che un po’ alla volta cominceranno a interessarsi anche alle proposte culturali dei territori in cui si sono trovati a vivere.

Investiamo in nuovi servizi con la stessa determinazione con cui guardiamo oltre i confini di casa. Studio Esseci è infatti referente per l’Italia di un network europeo che riunisce il top degli uffici stampa dell’arte di ciascuna area linguistica, un network oggi in grado di operare in Europa, Nord America e altri Paesi di lingua inglese, ispanica o portoghese nel mondo. L’essere parte di questa fucina internazionale ci ha fatto crescere professionalmente e ci ha anche portato importanti incarichi
.

Quali sono i clienti più importanti del vostro studio su scala nazionale e internazionale?

Importanti? Tutti! Se intende i più noti citerei le Fondazioni Ferrero e Benetton, Linea d’Ombra di Marco Goldin, la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Camera-Centro Italiano per la Fotografia, la Fondazione Magnani Rocca, il Castello del Buonconsiglio di Trento, il Cisa Palladio a Vicenza, la Biennale di Antiquariato di Firenze. Nel settore pubblico, cito diversi Comuni o musei comunali, da Verona a Udine a Ravenna, Pienza, Barletta… Poi diverse istituzioni statali: dalla Nuova Pilotta a Parma al nuovo Museo Nazionale Salce a Treviso, al Palazzo Ducale d’Urbino e ai musei di Cagliari a Sassari. Ma l’elenco è naturalmente parziale. In questi decenni abbiamo gestito più di tremila iniziative in Italia. All’estero, tra le altre, abbiamo seguito mostre allestite al Louvre e all’Orsay. Si affidano a noi la Pinacoteca Cantonale Züst di Rancate, Canton Ticino, Tefaf (sia per Maastricht che per New York) o, nel settore della musica (altro comparto di nostra attività), il Festival di Verbier.

Le esperienze più significative?

Tutte sono, o sono state, per me esperienze significative. E non può che essere così quando si lavora con passione. Certo hanno dato soddisfazione particolare i percorsi che hanno consentito sia a noi che ai nostri clienti di crescere insieme. Penso al cammino ormai trentennale a fianco di Marco Goldin, culminato nell’attuale mostra di Van Gogh a Padova. E a quello che ci ha visto affiancare la Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì, dal suo esordio nelle mostre con Palmezzano sino alla recente su Ulisse: una sequenza spettacolare, che ha imposto Forlì come città di grandi eventi espositivi. Esperienza che continuiamo a vivere a Rovigo, a fianco della Fondazione Cariparo. Fin dagli esordi ci siamo occupati anche di Camera a Torino. La nostra fortuna è stata proprio quella di poter lavorare spesso a lungo accanto ai nostri clienti.

Due sono gli eventi che mi hanno personalmente segnato: l’anno (e più) di lavoro per le Celebrazioni Nazionali dei 150 anni dell’Unità d’Italia e la mia prima mostra. Venne promossa dall’Abbazia di Santa Giustina qui a Padova nel 1980, per ricordare i 1.500 anni dalla nascita di san Benedetto. L’ho affrontata da incosciente, senza quasi sapere cosa fosse un ufficio stampa ed è andata benissimo, credo più per merito del santo che mio
.

Venendo al momento attuale, qual è il bilancio delle mostre e degli eventi annullati o rimandati?

Oggi si naviga a vista, cercando di restare più vicino possibile alla riva. Strategia che è difficilmente compatibile con la possibilità di intraprendere grandi imprese. Questa seconda ondata di chiusure rischia di risultare letale anche per il mondo delle mostre. Chi può farlo slitta in avanti gli eventi, chi non può, li annulla. Con che animo si possono programmare eventi per il 2021 e il 2022 senza avere alcuna certezza sugli sviluppi della pandemia, sugli strascichi sull’economia e quindi sul potere di spesa dei cittadini e delle amministrazioni? Intanto il mondo dei musei ha imparato a mostrarsi al pubblico attraverso l’online. Alcune fiere come Tefaf New York si sono riconvertite col farsi vetrina virtuale, riuscendo anche a garantire vendite importanti. Cosa certo positiva, ma che non assicura la sopravvivenza economica del comparto. Sono convinto anch’io, come molti, che siamo a un cambio di paradigma. Ma non riesco ancora a intuire come si configurerà il nuovo.

Quali saranno le conseguenti criticità per il vostro studio e quelle affrontate dai vostri clienti?

Se un settore non tira, chi vi è all’interno non vive una situazione migliore. Si può resistere riconfigurandosi, ma questo non garantisce futuro. Di contributi pubblici non se ne sono realmente visti, fatta salva la cassa integrazione. Che è un anestetizzante ma non una cura. L’estero non sta affatto meglio. In Italia privati coraggiosi tentano di non soccombere. Lo Stato si mostra meno sofferente ma c’è da chiedersi sino a quando. E gli enti locali agiscono in ordine sparso: c’è chi taglia anche il poco che aveva nei capitoli di spese per le attività culturali (ridestinando quei fondi al sociale) e chi continua a credere nella necessità di investire, non solo spendere, anche per musei e cultura. Poi c’è una minoranza, peraltro non così piccola, che può agire a prescindere. Penso ad alcune fondazioni e istituzioni bancarie che continuano a credere che la crescita culturale non sia un divertissement ma una opportunità per l’Italia.

Quali sono le vostre prospettive future e quali ulteriori soluzioni dovrebbe attuare il Mibact per aiutare il settore legato alle mostre e ai grandi eventi?

L’idea di diversificare è perfettamente nelle corde di Esseci. Già adesso ci occupiamo anche di musica, ambiente, medicina, iniziative nel mondo dei giardini e del verde, di turismo e non profit. Ho sempre lottato per tenere più porte aperte, non solo per strategia d’azienda ma perché credo imprescindibile lo stimolo a ragionare su più settori. 

L’arte resta tuttavia il nostro centro d’azione e di attenzione e mi piacerebbe lo restasse anche nel futuro. Perché questo avvenga credo sia necessario un ripensamento complessivo del settore, dal centro alle periferie e viceversa. Il Mibact in questo
momento può fare la differenza: il ministro Franceschini ha un peso politico notevole, la dirigenza centrale e periferica sta vivendo un’importante fase di rinnovo. Il settore ha necessità di aria ed energie nuove. Mi riferisco non solo ai denari ma anche alle norme, alla gestione dei prestiti, a un coordinamento che non divenga ulteriore burocratizzazione delle procedure, a una fiscalità meno opprimente.

Credo sempre più alla collaborazione pubblico-privato, il cui collaudo sul campo in questi ultimi anni ha messo in luce aspetti positivi e storture che andrebbero smussate se non rimosse. Penso anche a formule che già valgono per le produzioni cinematografiche. Ovvero all’intervento nella produzione di talune mostre da parte di banche, che giustamente cercheranno di guadagnare dal loro investimento, aiutate da una fiscalità di favore. Il settore non ha più risorse ma continua ad avere idee. E questo mi fa sentire ottimista, nonostante tutto.



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