Fortezze indifese

L’architettura storica militare, testimonianza di ardite sperimentazioni tecniche, in Italia stenta a essere valorizzata

Una veduta aerea della Cittadella di Alessandria, che sorge sulla sponda sinistra del fiume Tanaro
Paola Bianchi |

Nel vasto e variegato mondo dei beni culturali italiani, alcuni vivono una condizione particolarmente difficile. È il caso del ricco sistema di forti, fortezze e cittadelle che dalle Alpi alla Sicilia costellano il nostro territorio. La rimozione del «militare» che segna la cultura storica italiana non è certo estranea a questa situazione di degrado.

Mentre in tutto il continente musei militari, armerie, fortificazioni di ogni genere sono aperti al pubblico e valorizzati, spesso con percorsi di visita moderni e innovativi (si pensi al Militärhistorisches Museum di Dresda recentemente rinnovato da Daniel Libeskind), in Italia le cose stanno diversamente. E tali strutture continuano a suscitare dubbi e resistenze.

Tranne rari casi di trasformazione di un’architettura militare in un museo o spazio espositivo articolato con la comunicazione di altre risorse (si pensi al Castello Sforzesco di Milano, a Castel Sant’Angelo a Roma, ai Forti fiorentini del Belvedere e da Basso), la fortificazione rimane un oggetto tenuto a distanza, oppure consegnato a un recupero in standby che si perde nelle nebbie delle responsabilità istituzionali.

Le eccezioni italiane virtuose non sono solo legate a quegli edifici che hanno attraversato secoli e funzioni storiche differenti (i casi citati di Milano, Firenze e Roma sono fra questi), ma a quei luoghi in cui la storia militare ha lasciato un solco di identificazione forte. È il caso dei territori veneti, vicini, più che altrove in Italia, alla memoria della Grande Guerra, come ben documenta il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, ospitato in un castello quattrocentesco divenuto avamposto veneziano in Trentino: là le vicende militari sono restituite in un percorso di ampio respiro che inserisce la guerra mondiale in una storia più lunga e non solo locale, dall’antichità ad oggi.

Superato l’imbarazzo di dover dimostrare che non si pecca di militarismo nel voler recuperare e mettere a disposizione del pubblico edifici che hanno accolto caserme, prigioni e presidi armati, si tratta evidentemente di saggiare la qualità di quegli spazi interrogandosi sulla loro storia, chiedendosi quanto essi siano rimasti patrimonio di pochi o di molti, e quanto possano servire per comprendere meglio un presente che non nasce da oggi.  Sappiamo che, con il tempo, il rapporto delle comunità con cittadelle e fortezze è andato mutando, passando spesso dall’ostilità all’identificazione.

È accaduto, per esempio, ai milanesi, che oggi identificano il Castello Sforzesco come uno dei simboli della loro città e uno dei luoghi in cui organizzare eventi culturali. Eppure Machiavelli li aveva spinti a vedere in quel castello-fortezza lo strumento oppressivo del regime degli Sforza. Analogamente i fiorentini avevano attribuito la costruzione della Fortezza da Basso alla volontà tirannica del nascente potere dei Medici (dimenticando che Firenze aveva usato la stessa arma nell’assoggettamento di tanti ex liberi Comuni).

Nella storia degli antichi Stati italiani la stessa dinamica si verificò in molte altre circostanze. Forti e cittadelle furono, peraltro, anche teatro di moti e insurrezioni condivisi da gruppi della popolazione civile. Circa le difficoltà dell’Italia verso questo tipo di patrimonio è esemplare il caso del Piemonte, dove le cittadelle di Torino e Alessandria sembrano non trovare pace e dove il Forte di Fenestrelle (uno dei più importanti d’Europa) è stato oggetto negli ultimi decenni di vere e proprie campagne di disinformazione storiografica cui le autorità non hanno saputo (o voluto) rispondere in modo adeguato. Le Cittadelle di Torino e Alessandria sono state il luogo di avvenimenti importanti della storia d’Italia.

L’assedio di Torino del 1706, oggetto di tanta letteratura patriottica del secolo successivo, ebbe nella Cittadella d’origine cinquecentesca uno dei suoi fulcri. E i moti carbonari del 1821 ad Alessandria divamparono dalla Cittadella settecentesca, dove una giunta di governo provvisoria issò il tricolore proclamando l’adozione della Costituzione di Cadice del 1812. Sono pagine di storia che la pedagogia nazionale ha caricato di valore simbolico, e che solo recentemente, ma a ritmo alterno, sono divenute temi per dichiarazioni d’intenti di restauro e riapertura al pubblico.

Ciascuna delle due Cittadelle avrebbe ben altri episodi storici da inserire nel carniere. Fatti di guerre e di assedi, ma anche di ardite sperimentazioni tecniche, di un sapere ingegneristico che ha rappresentato, ben prima dell’età industriale, un fatto culturale di assoluto rilievo, un deposito di saperi condiviso dalla società civile, non solo da quella militare. Eppure in una città come Torino, che ha ospitato fin dal 1843 il più antico museo militare italiano rendendo pubbliche le collezioni iniziate già nel Settecento presso l’Arsenale, il Museo dell’Artiglieria resta «temporaneamente chiuso per restauri» nel Mastio della Cittadella, a dispetto dei ripetuti annunci di trasloco e di ripartenza dei lavori.

La ricca collezione, che annovera pezzi unici, dalle bombarde usate per l’assedio di Costantinopoli del 1453 a strumentazioni contemporanee di varia provenienza, ha trovato alloggio provvisorio nella caserma Amione di piazza Rivoli. Le forze armate, come succede spesso, contribuiscono a preservare un patrimonio che altri non riescono, parrebbe, neppure a considerare tale.

Un discorso analogo ha riguardato la Cittadella di Alessandria, una struttura imponente e rara, apprezzabile appieno solo da una visione aerea che ne colga l’ampiezza. Liste civiche, gruppi spontanei di «amici», ad Alessandria come a Torino, alimentano temporanee richieste di interventi pubblici, che tardano per ricorrenti insormontabili congiunture avverse.

I problemi strutturali, le oggettive difficoltà di gestione quotidiana di un complesso bisognoso di restauri, come ad Alessandria, e di consolidamento, come a Torino, paiono essere gli unici scogli per rimuovere i quali, tuttavia, è quanto mai necessario eliminare altri tipi di barriere: quelle culturali, assai più immateriali, ma non meno rigide.

Studiare la storia militare, valorizzare il patrimonio che questa ci ha lasciato non significa certo rimpiangere l’Europa delle guerre, ma sforzarsi di comprendere quello che è stato per un lungo passato uno degli elementi principali della nostra cultura politica e sociale, senza considerare il quale è ben difficile non solo spiegare il presente, ma poter guardare al futuro.

© Riproduzione riservata Una veduta aerea del Mastio della Cittadella di Torino con, in primo piano, l’installazione «Terzo Paradiso» di Michelangelo Pistoletto Porta monumentale verso la città del Mastio di Torino, unico resto dell’imponente fortezza disegnata nel 1564 da Francesco Paciotto per Emanuele Filiberto. Foto: Paolo Armand