Bellenger lancia le Residenze napoletane

«Napoli capitale» nel sistema europeo delle residenze reali

Sylvain Bellenger nel Museo di Capodimonte
Andrea Merlotti |  | NAPOLI

Il direttore di Capodimonte propone un sistema di offerta culturale unico, dai palazzi dei Borboni ai grandi siti archeologici, per raccontare a cittadini e turisti la storia di Napoli e del Mezzogiorno dal ’700 ad oggi

In un intervento sull’edizione napoletana di «la Repubblica», Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, ha presentato un importante progetto intitolato «Napoli capitale»: la costruzione di «un sistema di offerta culturale unico» che abbia come perno il sistema delle residenze borboniche e si estenda ai grandi siti archeologici. Scopo della proposta è realizzare una «narrazione unica, che aiuti cittadini e turisti a farsi un’idea della storia di Napoli e del Mezzogiorno dal Settecento ad oggi».

Bellenger proviene dalla Francia, dove musei e residenze «ci-devant» reali che raccontano la storia (e l’identità) della «Grande Nation» sono nell’ordine naturale delle cose: Versailles, Chambord, Compiègne, Fontainebleau, per ricordare solo i casi più importanti. Ma così non è in Italia. Da noi, semmai, è il contrario. Quando Vittorio Emanuele II unificò per la prima volta la Penisola, infatti, entrò in possesso (oltre a quello sabaudo che già era suo) di diversi altri sistemi di residenze, che per secoli erano stati delle dinastie spodestate. Decine di palazzi, insomma, da regge a più semplici casini di caccia, che probabilmente diedero al re d’Italia il più vasto complesso di residenze in possesso d’un monarca europeo. Il problema è che queste residenze raccontavano storia e gloria (vera o presunta) delle diverse dinastie che le avevano abitate.

Le regge e le residenze non sono, infatti, case museo di ricchi privati, ma luoghi del potere: spazi che raccontano prima di tutto una storia politica e in cui l’arte è in gran parte finalizzata a sostanziare una narrazione di questo tipo. Vittorio Emanuele II e i suoi ministri ne erano ben consapevoli. Il nuovo re d’Italia non voleva certo valorizzare la storia delle dinastie e degli Stati italiani d’Antico regime.

La scelta, quindi, fu obbligata. I palazzi dei sistemi ritenuti meno rilevanti furono destinati ad altri usi; quelli più importanti, ad abitazioni dei re d’Italia. Arredi e decorazione furono mutati per cantare storia e gloria della nuova dinastia. Le dismissioni volute da Vittorio Emanuele III nel 1919 non cambiarono questa situazione e nemmeno lo fece la trasformazione dell’Italia in Repubblica. Soltanto le residenze sabaude, dopo una lunga crisi durata dal 1946 per almeno un quarantennio, hanno conosciuto nell’ultimo trentennio una nuova storia. Altre ci stanno provando.

Il progetto «Napoli capitale» si inserisce, quindi, in un contesto che da tempo invita a ripensare la gestione di regge e residenze, sia considerandole un tipo specifico di patrimonio, sia ripristinando, almeno a livello gestionale, i complessi storici smembrati dopo l’Unità. Se quest’ultima operazione costituisce già una sfida non indifferente, ancor più complessa ne appare una seconda, altrettanto necessaria, cioè la definizione di quale sia la storia da raccontare. L’Italia non è la Francia. Non ha una storia nazionale condivisa, né prima né (spiace dirlo) dopo il 1860.

Gli ultimi decenni, a fronte d’una ormai forse irreversibile corrosione del codice risorgimentale, hanno visto la diffusione di una serie di antistorie che, pur da diverse angolazioni, hanno creato miti e retoriche non meno false e pervasive. Il progetto di Bellenger, se realizzato (come personalmente confido), rappresenterebbe quindi un felice intervento nella politica culturale del Paese, e per questo è auspicabile che esso si accompagni a un’attenta riflessione storica, che nasca dal confronto sia con le principali istituzioni a ciò deputate (per limitarsi a due esempi tanto naturali da esser ovvi, alle diverse Università napoletane e alla Società di storia patria) sia con quanto hanno operato in questi anni altre residenze italiane che si sono misurate con tali problemi. La storia di quella che fu una grande capitale europea come Napoli non merita meno di questi ambiziosi obiettivi.

Certo, a volte anche le regge hanno un campanile, ma non devono diventarlo. I sistemi di residenze italiane (borbonico, mediceo, sabaudo ecc.) non possono essere, infatti, prigionieri d’identità locali, di piccole patrie anguste e ancor più anacronistiche. Devono al contrario restituire il carattere europeo che fu loro proprio, aprendo ponti e mostrando relazioni. D’altronde, personaggi come Carlo III (su cui abbiamo ancora negli occhi le belle mostre del 2016, tricentenario della sua nascita), Maria Carolina e tanti altri non possono esser compresi se non inseriti nel contesto europeo che fu loro proprio.

A questo proposito, lascia molto ben sperare il ritorno, lo scorso anno, del Palazzo Reale di Napoli nell’Arre (Associazione Residenze Reali Europee), dove già è la Reggia di Caserta. Mostrare i legami che unirono all’Europa le tante Italie dell’Antico regime è, infatti, una missione profondamente attuale (e forse persino un po’ provocatoria) in un Paese che non cessa di esser vittima dei suoi piccoli e apparentemente immarcescibili localismi. Una sfida importante, che le residenze napoletane hanno tutte le carte in regola per vincere.

© Riproduzione riservata La facciata seicentesca del Palazzo Reale di Napoli che affaccia su piazza del Plebiscito. Cortesia Palazzo Reale, Napoli
Altri articoli di Andrea Merlotti