Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà

Perché archeologi e storici dell’arte che lavorano nel Vicino e Medio Oriente dovrebbero leggere «Kobane Calling» di Zerocalcare

Una vignetta di «Kobane Calling»
Elena Casalini |

«Per me un libro è valido quando ti dà l'impressione che l'autore sarebbe crepato se non l'avesse scritto». Lo pensava Sir T. E. Lawrence, la leggenda «buona» del colonialismo britannico, l’ultimo eroe romantico (immancabilmente orientale) della nostra epoca, tradito dalla modernità di una motocicletta lui che a cavallo e a dorso di cammello il deserto lo aveva conquistato.

Non credo di essere in grado di scrivere un commento migliore per l’ultima edizione di «Kobane Calling» di Zerocalcare (nome d’arte per il più secolare Michele Rech, Bao Publishing). Non tratta di storia dell’arte islamica, né di archeologia, o di storia antica. Non è un saggio, non è un volume di studio, non è un’esaustiva trattazione economico-politica. Si tratta del diario a fumetti (seconda edizione integrata) di due brevi viaggi in Rojava (Siria del Nord) che un gruppo di rappresentanti dei centri sociali romani ha organizzato tra il 2014 ed il 2015, e della storia dedicata a Lorenzo Orsetti, partigiano fiorentino morto sul fronte curdo nel 2018.

Tuttavia avverto la necessità di una riflessione sul perché coloro che lavorano con il patrimonio culturale nel Vicino e Medio Oriente dovrebbero incidere questo non-reportage illustrato nella memoria del cuore (che per gli anglofoni cresciuti a Lucia di Lammermoor e Wiliam Turner come Sir Lawrence è poi l’unica che esista davvero).

Archeologi e storici dell’arte amano aspetti diversi di un’unica antica professione: quella dei cantastorie. Ricostruiscono mondi andati in pezzi, ricuciono frammenti, imparano ad integrare lacune, a ricomporre mosaici di vite dimenticate, a seguire le tracce seminate nella terra, lungo le malte e sui capitelli delle cattedrali, nascoste tra pennellate d’olio e pigmenti, tessute in sudari e broccati.

Passano la propria vita a rincollare i cocci delle vite altrui (come se le proprie fossero intere…), dubbiosi e litigiosi ibridi di giornalisti, netturbini e psichiatri, unici ponti tra il presente ed un passato che non si è voluto (o potuto, o non si pensava fosse importante) raccontare. Un destino beffardo, che condanna ogni ricostruzione, ogni verità amaramente conquistata ad essere messa in discussione, rinnovata, ribaltata, rifiutata.

Anni a finirsi gli occhi calcolando diametri, spulciando archivi, triangolando mattoni crudi, per poi scoprire nuovi confronti, siti, dati, idee, quadri, statue, persone che dalla nostra visione ne creano un’altra: una vita passata con il costante spettro della frustrazione malpagata solo per poter conoscere una storia, una delle tante dimenticate, e per poterle dare voce, poterla restituire ai nostri simili, il più correttamente possibile.

E il quadro, per coloro che lavorano in terre con riferimenti culturali e linguistici diversi da quelli d’origine, può essere ancora più straniante. «La memoria è un ingranaggio collettivo», è uno dei mantra dell’autore in questione, ma è anche la radice della moderna archeologia pubblica e delle sue riflessioni sulle narrative del passato, il basamento della comunicazione artistica ed archeologica.

Per coloro che lavorano nel Vicino e Medio Oriente il peso della memoria e i dubbi attuali si sono fatti più pesanti. Il confine tra arte e archeologia e politica, quando non spionaggio e colonialismo, è una frontiera che è stata conquistata a stento, con infinite ricadute: dalle aste di beni trafugati illegalmente nelle recenti guerre in Afghanistan, Iraq e Siria, al dubbio ed all’ombra morale che si allunga quando istituti e ricerche devono, o hanno dovuto, anche in tempi recenti, collaborare con governi di cui è oggi impossibile negare la violenza.

Il presente è il nodo alla gola di un mondo che dall’Egitto alla Turchia all’Iran si sta chiudendo, che si e ci stringe sempre più rapidamente tra nuove guerre per conflitti antichi e governi liberticidi. Si può collaborare, essendone coscienti, con un regime, forse. Lo facciamo per «non lasciarli soli». Lo facciamo perché il passato è di tutti e il nostro sacro fuoco comanda che vada salvato e trasmesso, a maggior ragione in situazioni di crisi.

Lo facciamo perché là abbiamo amici che non tollereremmo di perdere, perché la sola idea di non rivedere più il cielo sopra la nostra casa della missione, la linea d’azzurro che demarca il confine tra lo scavo e l’infinito, o l’orizzonte della terra adottiva che scorre a sbalzi dal finestrino di un autobus, ci sembra inconcepibile.

Lo facciamo perché almeno una parte della categoria ha scavato troppe fosse comuni, viste troppe sepolture multiple e riduzioni di crani ed ossa lunghe per poter anche solo sperare che ci sia qualcosa di diverso alla fine di una rivoluzione. O più semplicemente per egoismo, perché in fondo apparteniamo anche noi a quelle terre.

Eppure raccontarle, anche solo al presente, raccontarne le contraddizioni, le differenze, quello che manca di più dell’altra costa del Mediterraneo quando siamo sulla riva opposta, appare un compito insidioso e scoraggiante; costruirne un racconto oggettivo del passato, ancora peggio.

Leggere Kobane Calling, che non è giornalismo ma comunica con maggiore efficacia, che è sì una narrazione soggettiva, ma con un io narrante che costantemente si mette in discussione, che si fa portavoce di una terra e delle persone che la rivendicano e che vi vivono rifuggendo stereotipi e bias culturali, è come vedere allo specchio i processi (ideali) della ricerca archeologica ed artistica.

Alcune vignette sembrano «rubate» a momenti cardinali della vita di studenti e ricercatori: dover comunicare ai propri genitori che si parte per una zona vicina o in guerra, sviluppare la dipendenza dal chai che per quanto importato in quantità industriali nelle valigie zeppe di spezie e profumi (perché il mondo mica poi è cambiato tanto dalla via della Seta in poi, incenso, zatar, sommaco, sandalo e rosa hanno il profumo più buono del mondo quando li compri al suk) non avrà lo stesso sapore di quando esce fumante dalla teiera carbonizzata del custode o dell’operaio di turno dritto nel bicchiere, religiosamente senza prese o anse, di vetro ustionante.

Quello che colpisce sono le riflessioni sulla difficoltà di un racconto che rifiuta le semplificazioni ma non la semplicità («i processi storici sono complessi, ci sono cause, conseguenze, tutta ’sta roba è frutto di una tradizione di lotte e cambiamenti culturali lenti e sedimentati»: benvenuti Wickham, Le Goff, Cammarosano, Runciman, Liverani, Manacorda; o ancora «il Tigri, un elemento fisico […] più vero di mille frontiere disegnate a tavolino in una stanza»). Soprattutto, il cuore della storia di Zerocalcare pare essere alla fine proprio il rapporto tra ciò che è successo, la sua narrazione, la sua percezione dalle diverse parti e una comprensione e una raffigurazione de «l’altro» mai superficiale: e questo è il fulcro della ricerca archeologico-artistica, a maggior ragione in oriente.

Kobane e la sua non-ricostruzione, «tutti devono vedere, guardare macerie. Sentire odore. Capire che Kobane oggi non è solo una città. Oggi Kobane è un museo a cielo aperto della vergogna dell’umanità. Di cosa è stato lasciato accadere. Non vogliamo ripulire tutto solo perché il mondo possa tornare a far finta di niente», è la teorizzazione del problema del ricostruire com’era dov’era, l’equilibrio mai risolto tra la fedeltà ad ogni traccia storica e il «recupero» integrale dei beni. Il ponte romano che tra Qamishlo e Kobane (p.169) riporta tutti in gita ad Ostia antica è un promemoria dell’appartenenza della storia, come pure quel «chissà quanto tempo ci vuole per raschiare via tutto l’orrore», cui Gramsci avrebbe probabilmente risposto che «l'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva; la storia insegna, ma non ha scolari», e quindi, non molto. Archeologi e storici dell’arte lo sanno bene.

Come apprendere e come comunicare la memoria personale ed il passato collettivo, come tenerli insieme: è una sfida che il disegnatore di Rebibbia riesce a vincere, e noi che i segni, gli scarti, i capolavori e gli oggetti quotidiani delle vite degli altri li studiamo e tentiamo di ricostruire abbiamo molto da imparare dalle sue vignette. «Una grande pazienza, una grande determinazione, un grande dolore», è scritto all’inizio della parte di racconto dedicata ai rifugi curdi sui monti di Qandil. È la sintesi di tutte le resistenze, di tutti i movimenti di lotta e di rivendicazione, di tutte le rivolte.

Ed è un appunto che chi lavora con il passato, soprattutto quello «degli altri», deve tenere presente in rapporto alla storia contemporanea, perché il nostro lavoro non sia solo una fuga in un tempo e/o in un luogo diverso, perché «la cultura […] è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri» (Gramsci, da Socialismo e cultura, Il Grido del popolo-29 gennaio 1926).

Il narrare di Zerocalcare può esser preso a modello proprio per la sobrietà e la pazienza con cui affronta temi dolorosi e difficili, per l’onestà intellettuale con cui espone metodo e ricerca: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà (ancora Gramsci, dai Quaderni del Carcere, 1929-39).

Zerocalcare, Kobane Calling Oggim 312 pp. , ill. b/n, BAO Publishing Milano € 22,00

© Riproduzione riservata Un'illustrazione di copertina di «Kobane Calling»
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