Mangiare nel museo con un critico d'arte | Fondazione Querini Stampalia

Fu un Querini del Quattrocento a importare lo stoccafisso, padre di tutti i baccalà

Il ristorate della Fondazione Querini Stampalia
Rocco Moliterni |  | VENEZIA

Diciamo che le mie aspettative erano molto alte, perché in varie edizioni della Biennale d’Arte di Venezia sono capitato alle cene (in piedi) della Fondazione Querini Stampalia e ne ho un ricordo superlativo, soprattutto a confronto con le altre occasioni analoghe che non mancano nei cinque giorni di vernice della kermesse lagunare, trasformatisi ormai in una vera e propria festa mobile (per sapere che cosa succederà tra due anni, in era speriamo post Covid-19, bisognerebbe avere una sfera di cristallo).

Ricordo mille sfiziosità e risottini che arrivano quando più non li aspetti a deliziarti la serata. Ebbene tutto questo è da dimenticare se si va in un giorno normale alla caffetteria della prestigiosa istituzione, che raccoglie l’eredità e i capolavori di una delle più antiche casate veneziane. Chi ama la buona cucina sa peraltro che si deve a un Querini naufragato sulle coste norvegesi delle isole Lofoten nel XV secolo la prima importazione in Italia dello stoccafisso, padre di tutti gli odierni baccalà mantecati.

Si può stare sia nelle sale interne sia in un cortiletto prospiciente la fontana in cemento armato firmata da Carlo Scarpa, archistar del ’900 in Laguna: se avete tempo passate a vedere quel gioiellino che è il negozio disegnato alla fine degli anni ’50 per la Olivetti in piazza San Marco, oggi tutelato dal Fai. Il menu dei primi giorni di settembre prevedeva tra l’altro tagliatelline alle cozze, maccheroncini panna, prosciutto e piselli (omaggio agli anni ’70 del tardo Scarpa?), orata al forno con verdure, insalate varie e panini.

La mia religione mi impedisce di mangiare piatti con la panna e il timore che le tagliatelline fossero scotte mi ha indotto a ordinare un toast di mozzarella e prosciutto (non in tutti i posti te lo fanno) e un’insalata. Chi era con me non ha resistito al fascino dell’orata, che oltre a essere di allevamento (ma questo ci sta) si è rivelata un po’ in là con la cottura, per non dire quasi papposa.

La mia insalata era senza infamia e senza lode, anche se i pomodori erano plasticosi e le olive snocciolate molto da busta di supermarket. Per fortuna il toast era abbondante e cotto bene, in modo uniforme su una piastra: io odio i toast a strisce fatti con i vecchi tostapane. Con due bottiglie d’acqua e due caffè si sono spesi 51 euro che non sono tanti per essere a Venezia ma non sono neppure pochi. Mi è rimasto il dubbio che forse avrei fatto meglio a provare qualche panino, perché avessero avuto una buona soppressa veneta l’esperienza poteva diventare interessante.

Certo più che farmi pensare alla caffetterie dei musei parigini e danesi, il mio pranzo mi ha tristemente rimandato ad alcune caffetterie di musei torinesi, il che per Venezia, capitale internazionale dell’arte, non è certo un complimento. Per consolarsi non resta che sperare nelle prossime cene alla Querini Stampalia in occasione della Biennale 2022.

© Riproduzione riservata Lo scorcio di una tavola imbandita alla Fondazione Querini Stampalia
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