Claudio Strinati racconta Maurizio Calvesi

«Amava l’arte ma forse ancor più gli artisti e questo insegnava»

Maurizio Calvesi
Claudio Strinati |  | ROMA

Claudio Strinati offre il suo ritratto intimo del grande storico e critico d’arte scomparso a 92 anni. A partire dal complesso rapporto con Federico Zeri, uniti (e disuniti) com’erano «dallo stesso profondissimo amore per la storia dell’arte, dalla stessa ansia di ricerca e di scoperta, e forse persino dallo stesso senso di responsabilità dell’intellettuale specialista verso la più generale dinamica della Società, della Politica, dell’amministrazione, dell’economia»

Il critico e storico dell’arte Maurizio Calvesi, 92 anni, è morto il 24 luglio a Roma, la città in cui era nato nel 1927. Era professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e accademico dei Lincei. Nel 1984 e 1986 è stato direttore del Settore Arti Visive della Biennale di Venezia, che gli ha attribuito il Leone d’Oro Speciale 2020. Nel 2016, dopo aver vinto il Premio Balzan, ha curato per Allemandi il nuovo
Catalogo generale di Boccioni con Alberto Dambruoso.

Maurizio Calvesi è stato per me determinante anche se il mio approccio con lui non fu facile, perché inizialmente improntato da parte sua a notevole severità e spirito critico nei miei confronti. Uno dei pochi amici, debbo dire, che mi ha trattato anche con signorile durezza quando ha ritenuto che io fossi in errore nel metodo di studio e nel comportamento di pubblico funzionario.

Lì per lì ne rimasi male ma ben presto la sua personalità non certo conciliante ma franca, aperta, criticamente matura e totalmente schietta e diretta, si rivelò a me come un vero e proprio punto di riferimento imprescindibile che avrebbe cementato un’amicizia durata quarant’anni con un rapporto vero di stima e reciproca comprensione che non è mai venuto meno. Anzi è sempre cresciuto nel tempo, tanto che adesso la storia della nostra amicizia mi appare emblematica e come tale cerco di raccontarla.

Ero approdato da poco, nel 1975, alla Soprintendenza di Palazzo Venezia a Roma, all’epoca detta «per i Beni artistici e storici». Avevo vinto il concorso per ispettore storico dell’arte due anni prima, quando le Soprintendenze dipendevano ancora dal Ministero della Pubblica Istruzione. Ma, appena assunto, Giovanni Spadolini si inventa il Ministero per i Beni culturali e così ne divento parte attiva. Maurizio Calvesi, all’epoca, lo conoscevo appena. Sapevo che aveva avuto una parabola originariamente simile alla mia. Negli anni Cinquanta era entrato nelle Belle Arti e aveva lavorato a Bologna, a Ferrara, a Roma. Da subito era stato insignito di incarichi importanti, aureolato di un prestigio personale che a trent’anni era già solido.

Io mi ero laureato nel 1970 con Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan all’Università di Roma e i due sommi docenti me lo avevano presentato additandomelo proprio ad esempio. Il giovane Calvesi in quell’anno passava dall'attività in Soprintendenza alla cattedra universitaria a Palermo, da dove Brandi stesso veniva. Così al momento non avemmo grandi occasioni di frequentarci. Tuttavia nacquero una simpatia e una stima fondate su una sostanziale sintonia di mentalità e di approccio alle cose dell’arte. Cesare Brandi ci scherzava sopra: «È del tuo stesso segno zodiacale, la Vergine, segno appropriato allo studioso metodico, acuto, ordinato, approfondito, innovativo. Guarda come sta sviluppando le ricerche in campo iconologico. Ha superato Panofsky e ha praticamente assunto la leadership in Italia. Sì, anche Eugenio Battisti va in quella direzione. Anche Maurizio Bonicatti, però Calvesi è un filologo vero! E guarda che un po’ vi assomigliate veramente. Siete nati a distanza di un giorno uno dall’altro, tu il 17 settembre e lui il 18 (l’anno di nascita gli interessava meno...). E poi, aggiunse, siete romani tutti e due e avete perso tutti e due i capelli. Lui si chiama pure Calvesi!».

Per una curiosa coincidenza alla metà degli anni Settanta tornammo entrambi a lavorare a Roma e così cominciammo a conoscerci meglio. Giulio Carlo Argan una volta me lo aveva detto: «Adesso voi giovani non fate quasi più l’esperienza del servizio militare. Invece, vedi, uno come Calvesi l’ha fatta in un certo senso perché andare prima in Soprintendenza a lavorare e poi passare sulla cattedra vuol dire imparare il mestiere sul campo per poi trasmetterlo agli altri. Sul territorio. Il Ministero ti manda a lavorare lontano da casa, in luoghi dove di tua spontanea volontà non saresti mai stato e magari ci vai di malavoglia. Come vedi il paragone col servizio militare regge. Sei costretto a conoscere altre realtà, persone che sulla carta potrebbero esserti nemiche perché appartenenti ad altre scuole o tradizioni che confliggono con la tua. Ma spesso conoscendo le persone cadono i pregiudizi, nascono amicizie vere, molti preconcetti svaniscono dalle menti e Dio solo sa quanto di questo noi storici dell’arte abbiamo bisogno».

Ed era vero. Soprintendenza è territorio e non solo biblioteca. Opere d’arte ed esseri umani che lavorano con te. E Maurizio Calvesi, allievo di Lionello Venturi e quindi del maggior esponente della scuola romana di Storia dell’arte, aveva conosciuto a Bologna Francesco Arcangeli, uno dei più importanti seguaci di Roberto Longhi, supremo maestro della scuola fiorentina. Era un’epoca di forte conflittualità il cui segno vivido era subito riconoscibile nella contestuale fondazione delle due riviste esprimenti le due scuole contrapposte. Nel 1950, infatti, avevano iniziato le pubblicazioni, nel grande fervore del dopoguerra, «Paragone» di Longhi e «Commentari» di Mario Salmi e Venturi, due formidabili strumenti metodologici e pragmatici, simboli, peraltro di alto livello, dello scontro tra le due scuole.

Calvesi e Arcangeli, più vecchio di dodici anni, erano destinati a essere nemici giurati. E invece divennero amici scambiandosi esperienze e conoscenze che si rivelarono reciprocamente giovevoli. Avevano sensibili analogie. Entrambi di mente libera e tendente a rimettere costantemente in discussione i grandi principi acquisiti, persino quelli proclamati dai loro stessi venerati maestri. Arcangeli, qualche anno dopo, dovette molto soffrirne. Calvesi al contrario manifestò da subito la forza del grande studioso, sicuro di sé e dottamente perentorio nelle sue enunciazioni, rispettose della propria formazione ma indirizzate ben oltre i confini apparentemente assegnatici, alla luce del principio dell’«Amicus Plato sed magis amica Veritas».

Calvesi si era insomma formato in un mondo di conflitti potenti ma anche di serio impegno e rispetto profondo per la professione. Soprattutto si era formato nel culto della ricerca intransigente della Verità che per essere affermata non deve guardare in faccia a nessuno, nemmeno, ed è stato il caso, all’amico Claudio Strinati quando ebbe sentore che fossi caduto, magari in perfetta buona fede, nell’errore o nell’equivoco. Fu nel 1979, rimproverandomi, con il più grande garbo e la più grande discrezione del perfetto gentiluomo, di avere io spinto troppo per riportare nell’agone attivo delle Belle Arti ufficiali quel Federico Zeri che da quel mondo era stato una ventina d’anni prima escluso e che, a giudizio di alcuni dei massimi e temutissimi dirigenti del Ministero, come il mitico ispettore centrale Giorgio Vigni, non sembrava meritare di potervi rientrare.

Ma io ero diventato amico di Zeri e gli volevo bene. Mi sembrava giusto così e non volevo sapere niente delle remore del passato. Successivamente Calvesi, che giudicava sempre con la sua testa e non condizionato da nessuno, mutò alquanto pensiero su questa drastica posizione riconoscendo le mie buone ragioni, ma lì per lì rifletteva una realtà difficile e non priva di insidie. C’erano motivi seri per scatenare una così rovente disputa e bene fece Calvesi a richiamarmi a maggiore vigilanza e consapevolezza, ancorché fosse poi il primo a rivedere saggiamente certe posizioni di ostilità facendo emergere, invece, quella magnanimità e bontà d’animo che lo hanno qualificato per tutto il resto della sua esistenza fino alla gloriosa nomina ad accademico dei Lincei.

Calvesi, insomma, raccoglieva un’eredità complessa e controversa all’interno della quale la disputa con una personalità potente come Zeri assumeva respiro epocale e profondo significato etico e culturale ben al di là dei fatterelli e dei pettegolezzi che veramente lasciano il tempo che trovano. Era l’eredità a contrasto di Lionello Venturi e di Roberto Longhi l’oggetto della disputa. Lionello Venturi era stato uno dei pochissimi docenti a non giurare fedeltà al partito fascista. Aveva lasciato l’Italia.

Argan, Brandi, Longhi, durante il ventennio, avevano svolto invece un’attività di intelligente, onesta e rigorosa collaborazione specie col lodato ministro Giuseppe Bottai, contribuendo a porre i pilastri di quella che sarebbe stata, nell’Italia liberata e fino ad oggi, la politica dei beni culturali più progressista, colta e ossequiosa del retaggio della nostra storia. Così nell’immediato dopoguerra esordivano due storici dell’arte che raccoglievano gli esiti estremi di questa situazione esasperatasi nell’era fascista e ora nell’Italia democratica, di nuovo riattivata secondo gli antichi comportamenti di una Nazione perennemente lacerata e pure profondamente coesa e rispettosa di sé. Questi due giovani si chiamavano Maurizio Calvesi e Federico Zeri.

Nel 1950 Calvesi aveva ventitré anni e Federico Zeri ventinove. Mentre Calvesi rappresentava in pienezza di sapienza e volontà la scuola romana venturiana, Zeri, che pure ne avrebbe avuto ogni possibilità e diritto, non rappresentava affatto la scuola longhiana. Allievo a Roma di Pietro Toesca, Zeri era destinato a una brillante carriera di esponente autorevole della grande scuola romana della Medievistica ampliata al primo Rinascimento giottesco e postgiottesco secondo la tradizione di studi che da Cavalcaselle a Morelli, a Van Marle, a Berenson, sembrava culminare proprio nell’immensa dottrina espressa dal Toesca, un autentico gigante del sapere. Ma Zeri mordeva il freno, si avviava anche lui al «servizio militare» delle Soprintendenze pur se irresistibilmente attratto dal mondo e dai metodi della scuola berensoniana, dal desiderio di svolgere l’attività di conoscitore professionista consulente e non dipendente del Ministero o dell’Università.

Calvesi e Zeri rappresentavano come meglio non si potrebbe due mondi contrapposti in apparenza ma in realtà uniti dallo stesso profondissimo amore per la disciplina, dalla stessa ansia di ricerca e di scoperta, e forse persino dallo stesso senso di responsabilità dell’intellettuale specialista verso la più generale dinamica della Società, della Politica, dell’amministrazione, dell’economia con l’attenzione equamente rivolta verso il passato e verso il presente.

Calvesi lo avrebbe dimostrato a un alto livello di filologia e di dottrina anche teoretica, affrontando in un percorso consequenziale e inarrestabile lunghi anni di studio interrotti soltanto dalla morte. E copiosi arrivano i contributi calvesiani su Giorgione e Piero della Francesca, Dürer e Caravaggio, l’Hypnerotomachia Poliphili (che attribuì a Francesco Colonna romano destando un appassionante dibattito che è ancora vigente), Boccioni e de Chirico, Duchamp, Piranesi, Tamara de Lempicka, fino a tanti contemporanei come Bendini, Galliani, Di Stasio e infiniti altri, in una ridda di approfondimenti, ipotesi, scandagli destinati a risvegliare menti inerti o insensibili e a nutrire generazioni di studenti fortunati nell’aver avuto un docente le cui lezioni restano memorabili in tutta la storia dell’Università italiana.

Calvesi amava l’arte ma forse ancor più gli artisti e questo insegnava. Che fossero antichi o moderni, li sentiva vicini e con gli artisti sostanzialmente ha vissuto la sua vita. I suoi saggi critici erano fondamentalmente un dibattito con gli artisti, vivi o morti che fossero, volto a capire che cosa effettivamente costoro ci hanno detto o ci stanno dicendo, tanto bello, amorevole, consolante è ciò che hanno da rivelarci.

E con questo spirito Calvesi ha occupato cariche dirigenziali alla Biennale di Venezia, ha diretto il Museo Laboratorio di arte contemporanea dell’Università di Roma, ha presieduto la Fondazione Burri, ha costituito la collezione di arte contemporanea del Ministero degli Esteri alla Farnesina, ha presieduto il Comitato di settore del Ministero dei Beni culturali, ha svolto un’intensa attività di pubblicista su «l’Espresso» e sul «Corriere della Sera», ha guidato con dedizione totale e per tutta la vita la rivista «Storia dell’Arte», un caposaldo dei nostri studi sia sull’Antico sia sul Moderno voluta da Argan alla fine degli anni Sessanta, e ha fondato e diretto quella meravigliosa rivista «Arte & Dossier», poi proseguita, dopo il passaggio della direzione a Gioia Mori, con «Ars», raccogliendo e ampliando il grande retaggio della divulgazione scientifica introdotta in Italia da Carlo Ludovico Ragghianti con «SeleArte».

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi ancora, a cominciare dalla sua casa/studio di Roma in via dei Pettinari, un incredibile e mirabile scrigno di libri (la mitica biblioteca di Mario Ceroli) e opere d’arte, sede di una vita intensamente vissuta con la moglie Augusta Monferini, insigne storica dell’arte e direttrice, tra i molti incarichi, della Galleria Spada e della Galleria Nazionale d’Arte moderna. Alla Galleria Spada Augusta Monferini ha occupato per alcuni anni lo stesso incarico che, nella prima metà degli anni Cinquanta, era stato di Federico Zeri quando in veste di funzionario pubblico aveva ricomposto la collezione e pubblicato il catalogo generale con l’assistenza continua e affettuosa di Roberto Longhi che lo aiutò tanto anche per il catalogo della Collezione Pallavicini stampato pochi anni dopo. Zeri poi aveva lasciato precocemente l’Amministrazione, nello stesso momento in cui Calvesi vi iniziava la sua parabola di competentissimo e assiduo funzionario, per andare, protetto dal conte Cini di cui era diventato consulente, in America supportato da Wildenstein e legarsi, molti anni dopo, a J. P. Getty.

Così la dialettica tra i due grandi giovani maestri dell’arte italiana si interruppe ancor prima di cominciare sul serio e fu un gran male per la nostra cultura storico artistica e per il suo prestigio internazionale. Calvesi, invece, arrivò presto a incarnare la figura del docente che copre un ambito vastissimo di studi, su territori inediti e sconfinati, sia realmente sia metaforicamente. Divenne uno dei nostri più grandi intellettuali. Serio, acutissimo, totalmente dedito alla ricerca, autore di testi memorabili scaturiti da una capacità produttiva che ha pochi paragoni nella storiografia dell’arte italiana del Novecento e non solo.

Oggi vediamo tanti artisti del passato e del presente con gli occhi con cui li ha guardati e scrutinati lui. Basterebbe ricordare Caravaggio e Boccioni, de Chirico e Duchamp che sono per noi ciò che Calvesi ci ha insegnato a vedere nelle loro opere. Zeri aveva una tendenza analoga, era dotato di cognizioni e capacità indiscusse ma non aveva tutta questa gran voglia di studiare, forse perché tutto sembrava venirgli facile con il supporto di una memoria visiva tra le più sviluppate dell’intera Storia dell’arte italiana, da Ghiberti a oggi.

Così i due uomini che avrebbero potuto costituire un formidabile polo dialettico nello sviluppo dei nostri amati studi non si misurarono direttamente l’uno con l’altro come sarebbe stato giusto e auspicabile. Eppure la tendenza a ricostruire la Storia dell’arte come un colossale enigma, le cui chiavi di lettura sono raggiungibili ma solo a mezzo di ardue e difficili ricognizioni, era simile in entrambi.

Calvesi aveva riaperto da giovanissimo gli studi su Bomarzo che negli anni continuò sempre a coltivare con una intelligenza critica che conglobava la cognizione di infinite dottrine. Zeri, pochi anni prima, aveva scritto e tardivamente pubblicato lo strepitoso saggio Pittura e Controriforma, sprezzantemente giudicato da Longhi come «arganiano», apoteosi del conoscitore che scardina i luoghi comuni e penetra nella verità della dinamica storica attraverso lo strumento dell’analisi stilistica. Poi Calvesi aveva onorato le naturali tendenze del suo segno zodiacale avanzando con sistematicità e metodo, tracciando veramente le vie maestre del sapere storico artistico della seconda metà del Novecento.

Zeri invece si era un po’ arenato negli studi, preda come era della sua natura altrettanto emblematica di Leone. Era nato in agosto e voleva vincere sempre, comunque e subito; ma la vita non funziona proprio in modo letterale in tal senso. Quando, nei Diari di lavoro 2 del 1976, Zeri invase il campo caravaggesco che era ormai diventato preminentemente di Calvesi, pretendendo di avere fatto sorprendenti e inequivocabili scoperte sul Merisi giovanissimo, provocò la reazione indignata di Calvesi stesso. Ne seguì una disputa, molto bella peraltro, cui io stesso partecipai. Imparai qualcosa sia dall’impeto irrefrenabile di Zeri sia dalla pacata saggezza di Calvesi. È stata quest’ultima, però, che mi ha poi guidato per tutta la vita. I frutti li raccolsi subito.

Poco dopo l’episodio dello scontro con Zeri, Calvesi concepì all’inizio degli anni Ottanta con il caro soprintendente Dante Bernini il progetto di ricerca ed esposizione intitolato «Il Quattrocento a Roma e nel Lazio» e mi chiamò a collaborare come suo amico, suo ideale allievo, suo seguace convinto. L’insegnamento che mi impartì in quel momento fu fondamentale e risolutivo. «Mi raccomando, Claudio, esamina insieme con i compagni di strada che ho individuato (ed erano personalità come Anna Cavallaro, Silvia Danesi Squarzina, Fabio Benzi, Roberto Cannatà, Stefania Macioce e tanti altri) ogni aspetto della questione, specie su Santa Maria del Popolo a Roma e su Viterbo. Zeri ha detto cose molto acute su alcuni punti tipo il problema Gerolamo da Cremona/Liberale da Verona del Duomo ma, come al solito, necessitanti di vera verifica filologica. Mi fido di te. Vedi un po’ che cosa puoi combinare, senza pregiudizi e senza sentirti prono a nessuno, meno che mai a me». Restano cinque bei cataloghi pubblicati da De Luca con molto merito e oggi forse un po’ rari. Il risultato fu buono.

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